“Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, e le violenze che non è stato mai capace di combattere”. Lo scrisse Giuseppe Fava, l’11 ottobre del 1981, all’interno del suo editoriale sul Giornale del Sud intitolato “Lo spirito di un giornale”. Era quello il momento in cui cominciò a montare nei suoi confronti un odio che lo porterà dritto alla morte, due anni e mezzo dopo, di fronte al teatro Verga di Catania, dove era andato a prendere il nipotino. Una fine tragica, annunciata. Anche se il figlio Claudio, a distanza di anni, racconta che il padre a questo epilogo non credeva: avrebbe suscitato una rivolta tale da travolgere i carnefici.

Ma la mafia è senza scrupoli, e quel 5 gennaio 1984 decretò la fine di una persona libera e schietta. Il secondo giornalista ucciso da Cosa Nostra dopo Peppino Impastato. Ma Fava non era soltanto un giornalista: fu pittore, scenografo, scrittore e drammaturgo. Una capacità come poche di narrare, di esaltare il concetto di verità. La sua storia è oggetto del film “Prima che la notte”, trasmesso mercoledì sera da Rai 1. In cui il papà di Claudio è interpretato da Fabrizio Gifuni, con Daniele Vicari alla regia.

L’onorevole Fava, da qualche giorno presidente della Commissione Antimafia, ha fatto parte del cast nelle vesti di sceneggiatore. L’opera prende spunto dal suo libro, scritto a quattro mani con il collega giornalista Michele Gambino: “E’ un film onesto, nel senso che ha avuto il coraggio e il piacere di raccontare non solo la morte ma anche la vita di mio papà. Ci troviamo dentro la sua vitalità, la capacità di fare della scrittura uno strumento di racconto a tutto campo. Non solo mafia. Ottenere questo effetto non era facile: ci sono voluti grande accuratezza e generosità”.

Il film si lega all’ultima fase della carriera di Pippo Fava, quando, in rotta di collisione con la proprietà del Giornale del Sud, si indebitò fino al collo e fondò la rivista de “I Siciliani”, un mensile indipendente e sfrontato. Il primo numero presentava un’inchiesta su “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”. I quattro mega-imprenditori di Catania che furono collegati al feroce boss Nitto Santapaola, ritenuto successivamente il mandante dell’omicidio (la Cassazione condannò definitivamente lui ed Ercolano all’ergastolo nel 2003). Catania, per la prima volta, apparve nelle sue fattezze: una città che seminava morti e in cui nessuno aveva il coraggio o la forza di guardarsi allo specchio.

“Tratteggiare un ricordo di mio padre significherebbe, forse, non aggiungere nulla a quello che già sappiamo di lui – spiega Claudio Fava –. Ha sempre voluto raccontare la realtà così come appariva. La qualità necessaria per farlo era tenere la schiena dritta. La cronaca a quei tempi debordava di storie tutti uguali e, in fondo, anche tutti i morti ammazzati si somigliano, come i processi. Lui, in ciascuna delle storie esaminate, cercava di cogliere la cifra umana. Perché guardare non è vedere”.

Da direttore de “I Siciliani” abbracciò alcune cause: oltre ai legami affaristico-mafiosi di Catania, anche la battaglia civile per smilitarizzare la base di Comiso. “Non siamo per nessuno e contro nessuno – amava dire Pippo Fava –. Siamo per la libertà dell’uomo e cercheremo di far emergere la verità in qualunque settore”. Si circonda di giovani cronisti, come il figlio Claudio, che trovano ispirazione e coraggio sotto la sua ala di protezione. Fino al 5 gennaio di trentaquattro anni fa. Quando da combattente, e nemico della mafia, finì per pagare sulla propria pelle l’altissimo prezzo di essere rimasto un uomo libero.

Oggi l’appartenenza all’antimafia è quasi una moda. Ma c’è chi, come Claudio Fava, spera di cavarne fuori un briciolo di decenza: “Per riacquisire credibilità servono parole sobrie. Non bisogna alzare la voce, ma decifrare quello che accade, indagare senza pregiudizi, provando a raccontare le cose e non raccontare se stessi. Penso che l’eroe non debba guardarsi troppo allo specchio, ma provare a oscurarlo. Cessare di capire e cominciare a fare”. Perché possa diventare una lotta seria. Nel nome (e per conto) anche del padre.