Puntava sulla complicità dei probiviri, che probabilmente arriverà: “La vicenda mi sembra parzialmente ridimensionata”, ha detto il commissario regionale di Fratelli d’Italia, Luca Sbardella. Ma il caso Galvagno è tutt’altro che concluso. Il presidente dell’Ars ha ritrovato la parola, dopo settimane di silenzio imbarazzante, per “dissipare” ogni dubbio e le accuse che gli sono state mosse dalla Procura di Palermo, che lo indaga per peculato e corruzione. In realtà, non ha dissipato un bel niente. Il ritorno in vetrina, prepotente come impongono la storia e le vicende di FdI, è un tentativo di scarabocchiare le carte processuali che fin qui parlano di: utilità economiche per quelli del suo “cerchio magico” (in cambio di contributi pubblici a sostegno di attività privatistiche); utilizzo spregiudicato (e illegittimo) dell’auto blu; gestione scientifica delle mance (“Importante che noi ragazzi non sbagliamo – diceva ai collaboratori – perché abbiamo la responsabilità di una manovra tutta nostra, cioè non c’è Uomo 8, non c’è Uomo 72, è a trazione nostra 100%”).

Galvagno non ha avuto niente da ridire sui 30 mila euro di compenso che le fondazioni Belisario e Dragotto – entrambe collegate a Marcella Cannariato, moglie di Tommaso Dragotto – avrebbero riconosciuto alla sua ex portavoce, Sabrina De Capitani, in cambio di eventi di finta beneficenza (e fallimentari sotto il profilo organizzativo). Né per i passaggi garantiti con l’auto blu al compagno di partito Ruggero Razza, o alla madre con la cagnolina Margot. Tutto perfettamente in ordine, o no? “Sull’ipotesi di peculato – insiste il presidente – ho già dimostrato come eventualmente sia stato interpretato sino ad oggi il regolamento ed ho ribadito la necessità di redigerne uno nuovo.” Ha detto veramente così: forse bisognerebbe scrivere nel regolamento che mandare l’autista a recuperare la “califfa” dalla parrucchiera o a prelevare il sushi non rientrano fra le “esigenze di rappresentanza e di servizio proprie, del Gabinetto e della segreteria particolare”.

Galvagno vorrebbe far credere che non ha fatto nulla di male, e su questo saranno i giudici – qualora si arrivi a processo – a pronunciarsi. Ma da qui a passare per vittima, anche no. Il presidente dell’Assemblea, dopo aver garantito il dovuto rispetto ai magistrati, ha trovato qualcuno contro cui scagliarsi: i giornalisti. Ha parlato, infatti, di “una campagna mediatica che ha cercato, in maniera sistemica, di nuocere non solo a me, ma anche all’immagine del mio partito, questione che mi ha molto addolorato”.

Il suo partito è quello dello scandalo di Cannes. È quello del fallimento di SeeSicily (la commissione Europea ravvisò delle “spese inammissibili”). È quello che – nonostante i venti di bufera – aveva provato a inserire nella manovrina in discussione all’Ars un milioncino e mezzo per gli eventi patrocinati dall’assessorato al Turismo. È quello della comunicazione pagata a peso d’oro, dei contributi alle associazioni gestite da familiari, delle graduatorie stravaganti della Film commission. È lo stesso partito che Giorgia Meloni s’è vista costretta a commissariare dopo il caso Auteri, e che ha due indagati in questa inchiesta: Galvagno e l’assessore Elvira Amata. Quindi è un partito che s’è fatto del male da solo, azzoppando la questione morale, cancellando il buon senso con un colpo di spugna, dissipando – questa volta il verbo è quanto mai centrato – milioni e milioni dell’Europa.

Nessun accanimento aprioristico contro Fratelli d’Italia. È la realtà a dirgli male e a dargli contro. Tuttavia il presidente dell’Ars – grazie alla seduta di santificazione in aula, al Ventaglio e infine all’opera di verifica dei probiviri – ha provato a uscire dall’angolo, rimettendosi al centro della pista. Addirittura c’è chi l’ha individuato come possibile mediatore per risolvere gli enormi problemi che accompagnano il centrodestra al varo della Finanziaria di mezza estate. Peccato che i precedenti non lascino ben sperare: 10 mila euro per un’apericena in occasione dell’evento “Donna economia e potere” svolto dalla Fondazione Belisario; 27 mila per un paio di edizioni “La Sicilia per le donne”, organizzato dalla Fondazione Dragotto; 198 mila euro alla Fondazione Dragotto per “Un Magico Natale” ’23 e ‘24. Questi sarebbero secondo la Procura i contributi orientati dal presidente.

E poi la gestione della Federico II con la De Capitani; ma anche la cura maniacale del Cerimoniale (cioè le attività di rappresentanza dell’Assemblea e del presidente, dentro e fuori dall’Ars). Un’altra attività curata a tempo pieno dall’ex portavoce, che aveva scavalcato – come si intuisce da una ricca intercettazione – la segreteria generale dell’Assemblea: “Già il fatto che ha portato il cerimoniale sotto la presidenza, allora devo dire che ho insistito molto io perché comunque mi sembra il minimo che la parte degli eventi… perché poi cerimoniale sono gli eventi, la parte degli eventi deve essere sotto il presidente… non è che deve essere sotto Scimè (il segretario generale Fabrizio Scimè, ndr) perché io devo sapere quello che è… come l’evento deve essere organizzato perché è lo specchio del mio presidente… se io ti dico che lui non vuole andare in quel ristorante tu non è che lo mandi lì perché costa meno tu lo chiedi al presidente”.

Sono questi i comportamenti che i probiviri dovrebbero analizzare. Per capire se appartengono alla morale pubblica. Per spiegare se sono compatibili con l’attività politica nel partito (e in generale); o degni a tal punto da andare avanti come se nulla fosse. Dicono che a Roma non abbiano preso benissimo le spacconate di Galvagno, che non abbiano apprezzato per niente – giudicandolo “sconcertante” – il selfie con il cappellino all’indietro durante la festa di nozze del figlio di Totò Cuffaro (mentre a Palermo si celebrava il 33° anniversario della strage di via D’Amelio e mentre sfilava in testa alla fiaccolata Arianna Meloni, sorella della premier e responsabile dell’organizzazione del partito).

A Roma, nei mesi scorsi, sono stati ipercritici per la gestione del partito: la Meloni è arrivata addirittura a commissariarlo. Manlio Messina, grande anticipatore sui temi del turismo, è stato attaccato da Donzelli per non aver preso le distanze da Auteri (che nel frattempo è passato alla Dc); poi si è dimesso da vice capogruppo alla Camera per dare un segnale – così dice lui – a tutti quelli che hanno sbagliato. Era venuto meno il privilegio dell’impunità. Solo che questo privilegio, oggi, non solo è stato ripristinato, ma è mascherato dalla presunzione d’innocenza e dal tentativo di far apparire la lettura delle carte come una strategia di accanimento. Hanno fatto tutto da soli, e adesso si lagnano pure.