Era un fuoriclasse, Gioacchino Lanza Tomasi. Qualsiasi cosa facesse. Era un piacere la conversazione con lui. Qualunque cosa raccontasse. Non solo per l’incanto di un uomo colto come pochi, capace di spaziare per il vasto mondo. Non solo per il patrimonio di esperienze, conoscenze e competenze testimoniato da un curriculum di prim’ordine.

Di Gioacchino colpiva l’ironia, il guizzo che illuminava gli occhi azzurri, il gusto per la battuta fulminante. Aveva sempre un punto di vista non convenzionale che centrava l’obiettivo e induceva a riflettere.

Quando scrive del padre adottivo Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore di quel capolavoro assoluto che è “Il Gattopardo”, Gioacchino Lanza Tomasi sembra che parli di se stesso: “Quella consapevolezza della provincia che deriva da un’istruzione aperta ad influssi esterni, avida di letture, che finisce col rendere l’individuo partecipe e al tempo stesso eccentrico alla società in cui vive”. Ecco, Gioacchino era “un prodotto atipico dell’aristocrazia palermitana”. E ne era consapevole.

In una delle tante interviste televisive che mi ha rilasciato quando lavoravo alla Rai,

Gioacchino Lanza Tomasi ricordava la Riforma agraria degli anni Cinquanta. Il provvedimento mirava a suddividere i grandi appezzamenti e a ridistribuirli a piccoli proprietari, che spesso già lavoravano la terra come contadini, mezzadri, gabellotti. Ricordava come al Circolo Unione di Palermo, il circolo della nobiltà più blasonata e all’epoca ancora latifondista, la riforma agraria provocasse discussioni accese e fosse vista come il diavolo. “Ma – aggiungeva – quando la riforma agraria divenne legge era moneta già prescritta. L’emigrazione con la valigia di cartone verso il Nord era iniziata. L’aristocrazia come casta era condannata. Per salvarsi bisognava imboccare la via delle professioni e dei mestieri”.

Gioacchino Lanza Tomasi fu musicologo acclamato, esperto di opera e di melodramma, ma anche scrittore, giornalista, critico d’arte e di letteratura musicale. Si occupò di storia urbana. Curò rubriche di vario genere per riviste e quotidiani come il giornale L’Ora diretto da Vittorio Nisticò, Il Giorno, The Financial Times. Fu direttore dell’Istituto di cultura italiana a New York dal 1996 al 2000, un’esperienza particolarmente felice per il più giovane dei suoi figli, Giuseppe, nato dal matrimonio con Nicoletta Polo, una veneziana di formazione internazionale, capace di parlare non so quanti idiomi, innamorata dell’arte e della letteratura e quindi anche della Sicilia, di cui coglie fasti e nefasti.

Non fu, Gioacchino, propriamente “profeta in patria”. Come scrive nel libro “I luoghi del Gattopardo”, Enzo Sellerio editore, 2001, “quasi che il fatalismo palermitano si fosse vendicato, confermando che l’eccentricità non rende felici”. Il riferimento è allo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa che lo adottò nel 1957. Ma si adatta anche a lui. Direttore artistico del Teatro dell’Opera di Roma nel 1976, dell’Orchestra sinfonica della Rai nel 1984, del Teatro comunale di Bologna nel 1991, sovraintendente del Teatro San Carlo di Napoli nel 2001, al Teatro Massimo di Palermo ha collaborato come consulente in anni ormai lontani.

Nato a Roma nel 1934, figlio cadetto di una famiglia siciliana con nove secoli di storia, era venuto a vivere a Palermo nel dopoguerra. Qui iniziò a frequentare assieme ad altri giovani talentuosi come Francesco Orlando e Francesco Agnello il cenacolo letterario del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, suo lontano cugino.

Si capisce perché ai giornali viene facile titolare sulla morte dell’Ultimo Gattopardo, ma non credo che Gioacchino avrebbe apprezzato la definizione. Aveva scritto pagine memorabili sulla “frattura tra realtà e rappresentazione” di una società condannata come quella dei “Gattopardi”. Il principe suo padre “come aristocratico ne portava il carisma e ne avrebbe espiato lungo la propria vita le conseguenze storiche”.

Gioacchino Lanza Tomasi è morto ieri a Palermo a 89 anni. Alla famiglia le condoglianze del direttore e dei collaboratori di questo giornale.