Calate il sipario sull’arte virtuale

Giselle

Il beep ormai familiare del pc lo avvertì che mancava un quarto d’ora alla fine del lavoro. Si alzò per andare in cucina, ultimo decaffeinato del pomeriggio, tazzina, macchinetta, pulsante dello start e zucchero, un cucchiaino scarso. Era uno degli ultimi riti quotidiani dello smart working, lavoro agile lo chiamavano ma a lui ormai sembrava pesantissimo, dal lunedì al venerdì, da tre anni. Quando gli scienziatoni onnipresenti in tv avevano detto che la gente avrebbe dovuto imparare a convivere col virus aveva capito subito che ci sarebbe scappata la fregatura. E infatti. Comunque erano quasi le cinque e non ci voleva pensare perché quella sera aveva voglia di andare a teatro, si era già preparato psicologicamente e pragmaticamente organizzato, cena fredda, veloce ma gustosa, divano risistemato per bene, area salotto tv off limits per i cani.

Funzionava così. C’era un repertorio vastissimo, dalla tragedie dell’antichità ai nuovi copioni, sia le une che gli altri accompagnati da brevi cenni sui temi, la trama, i personaggi. Poi c’era la scelta degli attori. Potevi farla tu. Per questo molti registi s’erano rifiutati, non ci sto a questo giochetto, avevano detto tra l’allibito e l’indignato quando menti acutissime della tecnologia e della comunicazione avevano presentato in pompa magna il software, pur dando loro la possibilità di tre o quattro interpretazioni diverse per ogni lavoro. Lo stesso scenografi, costumisti, elettricisti, truccatori, sarte, macchinisti. Ma il marchingegno era perfetto, pensato e realizzato per far lavorare tutti. Da casa. Pagati.

Quella sera aveva voglia di un classico. Amleto, si disse. Ma senza troppa convinzione, tanto sapeva che avrebbe potuto cambiare da un momento all’altro, la selezione durava una manciata scarsa di minuti, qualche volta capitava che il programma rifiutasse la scelta su un attore, non è che tutti possono recitare il principe di Danimarca, d’altronde, e vai a trovarli due che possono mettersi nei panni di Rosencrantz e Guildenstern. Il programma ti aiutava con delle preselezioni, ah sì, questi due erano l’anno scorso nella versione di quel tale regista, li riconfermo, oppure no, meglio questi altri due, sono tra i più consigliati. Potevi anche scegliere se far alzare il sipario – magari eri uno ortodosso, uno all’antica – oppure no, niente quarta parete. “No curtain, no scenery”: che tenerezza, a pensarci, la didascalia di Thornton Wilder per «Piccola città», vecchia di quasi cent’anni.

Funzionava così anche per il cinema. Che certo si era meglio adattato al nuovo gioco, già avvezzo com’era a ciondolare tra piattaforme varie, a farsi irretire da bizzarre virtualità. Lì davvero era quasi un divertimento, ti potevi sbizzarrire: avventuroso, comico, drammatico, sentimentale, bellico, fantascienza, mistery, giallo, noir eccetera eccetera, che sembrava di leggere i vecchi tamburini dei giornali, quelli del «dove andiamo stasera?». Migliaia di soggetti e sceneggiature. Gli attori avevano però potuto scegliere fra le storie e i personaggi. Se il tuo beniamino aveva detto di no, un rumore sordo faceva tornare indietro le selezione.

Funzionava così anche per la musica pop, rock, rap, digitale da anni e anni, solo che band e cantanti registravano dei live ad ogni nuova uscita ma no, non era comunque la stessa cosa, che cazzo stai a pogare con la tua fidanzata in salotto che i cani credono tu voglia giocare o, al massimo, che tu sia un coglione e basta? Regole più rigide per la classica e la lirica. Per quel quartetto erano suggeriti quegli ensemble lì, per quel sestetto quegli altri e poi, anche qui: la Nona di Beethoven son capaci tutti a dirigerla ma in pochi a darle senso, o i Kindertotenlieder di Mahler, trovatemelo un baritono all’altezza. La lirica, infine, non parliamone, le opzioni erano piuttosto rigide, senza contare le continue diatribe telefoniche preselezione. Vuoi far dirigere il «Trovatore» a quel direttore? Pazzo, niente di più lontano da Verdi, don Peppino stasera viene a casa tua e ti trascina nell’oltretomba. E se per Azucena clicchi su quel mezzosoprano sta’ sicuro la vampa s’ammoscia, altro che stridere…

Alla fine s’accomodò per «Amleto», non era serata da spericolatezze dopo otto ore di smart working comprese due videoconferenze coi capi. Sì, sì, vada per il buon vecchio Bardo con un suo superclassico. E scelse per giunta un adattamento tradizionale, attori d’accademia, anche la regia, sobria ma non convenzionale. Il tempo che la macchina assemblasse tutto – testo, interpreti, regista, scene, costumi – e si piazzò sul divano davanti al megaschermo domestico, ssshhh, ma a chi dico di stare zitto se sono solo?, ah sì, ai cani. Cliccò sullo start.

Si svegliò di bottò, una molla lo spinse di scatto a 90 gradi sul letto, la maglietta fradicia di sudore, pensò ai suoi amici artisti, a tutti i giochetti grafici che avevano architettato sulle piante dei loro teatri ai tempi in cui impazzava il morbo, a tutti i diritti richiesti una volta per tutte a gran voce, alla creazione di un albo degli attori, al tutti per uno, al tutti contro tutti, pensò a quando, rimaste spente per mesi le luci dei teatri, delle sale da concerto, dei cinema, delle grandi arene dove si fa musica, dei localini dove furoreggiano le band, l’arte aveva fatto di necessità virtualità, pensò ai suoi amici teatromani, cinefili, musicodipendenti, alle sue amiche groupies di quell’attore o di quel cantante che si sarebbero fatte murare vive in camerino con lui o seppellire in un palco di seconda fila. Si alzò, andò in cucina per dare ristoro alla gola secca, accese malvolentieri la luce. Sul tavolo due biglietti per una «Giselle» dell’indomani sera che aveva promesso alla fidanzata, fissata col balletto, sette anni improficui di scuola di danza. Li guardò: platea, fila ottava, posti 12 e 18, pensò a loro due, due poltrone vuote in mezzo. Meglio che niente. D’altronde anche Giselle e Albrecht si sarebbero amati in palcoscenico sfiorandosi solo la punta delle dita. Distanziamento sociale, lo chiamavano ancora. Distanziamento del cazzo, bofonchiò. E tornò a letto, sperando di riprendere sonno.

Totò Rizzo :

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