Tra i motivi, quasi del tutto imperscrutabili, che hanno convinto la Lega di Matteo Salvini a federarsi con l’Udc di Lorenzo Cesa – altro che “valorizzazione delle tradizioni e dei valori cristiani dell’Europa” – ci sarà, forse, la classica diffidenza con cui i meridionali accolgono il simbolo del Carroccio sulla scheda elettorale. Anche nel 2022, alla vigilia delle Regionali, si erano inventati Prima l’Italia, pur di convogliare qualche voto in più sulla lista. Ma il matrimonio d’interesse siglato qualche giorno fa, va analizzato anche ribaltando la prospettiva. Perché se è vero (come è vero) che la Lega avrà pensato soprattutto al proprio ritorno d’immagine, anche per l’Udc è un disperato tentativo di sopravvivenza.

Di fatto, quello di Cesa, è un partito che non esiste. Che si dichiara centrista e, puntualmente, a pochi mesi dalle elezioni, reclama un voto moderato da parte dei disillusi della politica, che non si recano più alle urne. Col risultato che i voti non arrivano e l’astensionismo aumenta. Per questo, potremmo ricondurre il tentativo (maldestro) a un metodo che nell’Isola è già stato sperimentato con successo: si chiama “metodo Marchetta”. In cui Marchetta – nome di battesimo Serafina – è la moglie del segretario provinciale dell’Udc, Decio Terrana, che alle ultime Regionali è riuscita a conquistare un seggio a Sala d’Ercole (per poi spingersi nel Consiglio di presidenza dell’Ars, come deputato segretario) grazie a una promozione ricevuta da Schifani nel proprio “listino”. Cioè quell’elenco di deputati che non necessitano di voti per accedere in parlamento, ma che vengono indicati dal candidato alla presidenza – non sono richiesti chissà quali requisiti, basta l’indicazione dei partiti – e ottengono la promozione allo scattare del premio di maggioranza.

Grazie a questo metodo, che non ha nulla a che fare coi meriti politici acquisiti sul campo, la Marchetta è diventata parlamentare nonostante i soli 25 voti di preferenza. Molto peggio che diventare assessori, come la Pagana o Scarpinato, senza essere eletti. Venticinque contati, nessun refuso. E’ questo il clamoroso risultato portato a casa dalla compagna di Terrana, cioè il braccio destro di Cesa in Sicilia. Anche lui un abile diplomatico, rettore all’università delle buone pratiche, che alla vigilia delle ultime Regionali aveva ottenuto ospitalità nella lista della Dc di Totò Cuffaro, ma che venne escluso dal Palazzo dei Normanni perché non eletto (prese 2.700 voti, fu il quarto su sei in provincia di Agrigento). Ma il caso della moglie è emblematico: è un manifesto di come un senza-voto riesca comunque ad approdare nei palazzi che contano e ad armeggiare potere, guadagni, considerazione.

L’Udc, premiata ben oltre i propri meriti alle Regionali, oggi ci riprova. Utilizzando la disperazione di Salvini, che al Sud e nelle Isola rischia di subire un clamoroso tonfo rispetto ai risultati di cinque anni fa. Per calmierare le perdite, si affida a questi patti federativi – quello con Lombardo è saltato – di cui non si coglie francamente il senso: cosa vuol dire creare un gruppo dell’Udc a Montecitorio sfruttando la presenza di un paio di parlamentari (Cesa e l’ex segretario della Lega siciliana Minardo)? Che senso ha sommare i voti dell’uno, già scarsi, a quelli dell’altro, praticamente inesistenti? Qual è l’obiettivo nel medio termine, quale la proposta, quale la collocazione europea di un eventuale ‘centrista’ eletto a Bruxelles in quota Lega? Il Partito Popolare Europeo, che sarebbe la scelta di un qualsiasi sturziano, o Identità e Democrazia assieme alla Le Pen?

Sembra solo una mossa disperata, di parassitismo politico, mascherata da un insieme di menate messe in fila dagli uffici stampa: per l’occasione hanno citato “tutela della famiglia, autonomia dei territori e della valorizzazione degli enti locali; salvaguardia del lavoro; determinazione per sostenere sviluppo e nuove infrastrutture; contrasto all’immigrazione illegale; incoraggiamento a ogni iniziativa finalizzata alla pace; impegno per l’indipendenza energetica del paese”. Lega e Udc insieme vogliono raggiungere la pace nel mondo. Magari bastassero le frustrazioni di due partiti…

Queste elezioni europee stanno rivelando il lato oscuro della politica: quello degli avventurieri – non solo politici di professione – che le provano tutte pur non coltivando alcun merito in particolare. Tanto meno la legittimazione del popolo. E’ per questo che i santoni dell’antimafia trovano spazio, urbi et orbi, senza aver mai sradicato il malcostume dalle dinamiche regionali. Senza nemmeno averci mai provato. Avrebbero potuto pronunciare una parola sulle spese del turismo, sui concorsi degli agenti forestali, sui bandi per il servizio anti-incendio delle autostrade, sulle parcelle d’oro agli avvocati; avrebbero potuto storcere il naso di fronte agli sprechi dei carrozzoni o alla parcellizzazione della spesa in Finanziaria (a copertura delle mance elettorali); si sarebbero potuti battere per la trasparenza dei conti, contro i bilanci di cartone, per la certificazione della spesa europea. Invece hanno fatto orecchie da mercante: si sono abbarbicati a Bruxelles, per chi ne ha avuto l’occasione, lucidando il proprio curriculum da paladino della legalità; chi era fuori dal giro, invece, ha atteso pazientemente il proprio turno, cavalcando la questione morale, impugnando la forca a corrente alternata, millantando collusioni e patti scellerati. Facendo girare all’infinito la giostra della fuffa, in attesa della fermata migliore, che coincidesse con la disperazione (elettorale) di qualcuno.

Il record è di Cateno De Luca, che ha imbarcato testimoni di giustizia, (mancate) vittime del racket, ex generali dei carabinieri (il capitano Ultimo, dopo trent’anni di passamontagna, ha ceduto alle lusinghe della Libertà e se n’è privato). Ma anche gli altri, con la pesca a strascico, hanno tirato su di tutto: Forza Italia ha cancellato di colpo il proprio passato garantista, affidandosi a Caterina Chinnici; i Cinque Stelle, certamente coerenti con la propria storia, hanno aggiunto Giuseppe Antoci alla collezione delle figurine (di cui fa parte anche il senatore Roberto Scarpinato); Calenda si è fiondato su Sonia Alfano, figlia del giornalista ammazzato dalla mafia. Ci si interroga – con fare serio – sui motivi che hanno indotto il Pd a non “ingaggiare” (non ancora) uno di questi santoni che va tanto di moda. Guai se Elly rifiutasse di partecipare al contest: diranno che non è più la sinistra di una volta. Un professionista dell’antimafia non si nega a nessuno.