Difficile spiegare a una regione a “contagio zero” – come la Sicilia – il perché della proroga fino al 31 dicembre dello stato d’emergenza (annunciata da Conte a Venezia, all’insaputa del suo governo). Difficile poter accettare, come è accaduto fin qui, quel fiume di limitazioni che ci hanno guidato nella gestione della pandemia, ma anche e soprattutto nell’articolato processo delle riaperture. Perché, al di là del potere di deroga delle singole istituzioni regionali, le linee guida restano una (fastidiosa) stella polare anche per chi ha saputo contenere in maniera eccellente la diffusione del contagio. A Musumeci è bastato fare il sergente di ferro (blindando lo stretto di Messina), all’assessore Razza impartire le direttive tecniche, alle Asp organizzarsi con tutti i crismi – quando non è avvenuto, come nel caso di Siracusa, l’abbiamo pagata cara – e il responso parziale del Covid parla di 283 decessi e appena 124 attuali positivi (zero nella rilevazione di venerdì, uno soltanto ieri).

Per questo suonano insopportabili le restrizioni che ancora impediscono a cinema e teatri di ripartire, o a pizzerie e ristoranti – il cui fatturato, dal restart, è colato a picco – di dover limitare i coperti. O ai ragazzi, fra qualche mese, di dover tornare a scuola con la mascherina, e fare lezione in aule separate. Si dirà che la prudenza non è mai troppa – e può anche starci bene – ma l’eccessivo allarmismo no, non è più tollerabile. Uno dei tanti virologi che si sono impossessati della scena, tale Andrea Crisanti, qualche giorno fa ha prefigurato un orizzonte da incubo: “Il problema sarà in autunno e in inverno: considerando la dinamica della pandemia e guardando cos’è successo, pensare che siamo in una bolla è utopico. Avremo molti più casi con dimensioni più importanti”, ha detto. Ma se l’obiettivo è limitare i focolai, adottando norme di comportamento che sarebbe auspicabile adottare sempre (lavare spesso le mani, usare il gel igienizzante, e cose di questo tipo), non si può certo cedere alla strategia della paura.

La stessa strategia che, nelle ultime ore, è sfociata in una serie di minacce incontrollate e incontrollabili: come la “polmonite sconosciuta”, potenzialmente più mortale del Coronavirus, che avrebbe cominciato a diffondersi in Kazakistan. L’annuncio era stato dell’ambasciata cinese, la smentita delle autorità locali. Ma anche nel nostro piccolo riusciamo a rendere il presente una fastidiosa orchite, e il futuro drammaticamente in bilico. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, che dovrebbe garantire la sicurezza degli italiani, ha annunciato una nuova ondata di… tensioni sociali. Ha parlato di rischio “concreto perché a settembre-ottobre vedremo gli esiti di questo periodo di grave crisi economica. Negozi chiusi, cittadini che non hanno nemmeno la possibilità di provvedere ai propri bisogni quotidiani. Il governo ha posto in essere tutte le iniziative necessarie per andare incontro a queste esigenze”, ma “il rischio è concreto e vedo un atteggiamento di violenza contro le forze di polizia assolutamente da condannare”.

Forse negli Usa, con la protesta “Black Lives Matter”. Ma in Italia, a parte poche dimostrazioni di ostilità – a Mondragone, per esempio, o a Palermo, a inizio marzo, con qualche timido assalto nei supermercati – tutto ‘sto gran chiasso non s’è fatto. L’unico accenno di minaccia colorato è arrivato dai gilet arancioni del generale Pappalardo, negazionisti del virus, che sono atterrati a piazza del Parlamento dall’ultraspazio e ci hanno trovato poche decine di persone ad accoglierli.

Questo non vuole e non deve sminuire la sofferenza. Che la politica romana non ha fatto abbastanza per lenire, dato che numerosi cassintegrati sono ancora in attesa del miracolo (e lo sa pure la ministra Lamorgese). Tanto più quella regionale, che dopo aver agitato ai quattro venti le doti salvifiche del colonnello Musumeci, non ha dato seguito sul piano materiale alle belle parole degli ultimi tre mesi e ai numerosi inni alla resilienza. La Finanziaria è ancora congelata, gli aiuti a famiglie e imprese non arrivano. Tanto meno i soldi per il comparto del turismo “di prossimità” (quest’anno le vacanze a Ibiza sono fortemente sconsigliate). Ieri l’assessore Messina ha preso altri quindici giorni di tempo i famosi voucher, e già si fa largo l’idea di proiettare i 75 milioni sulla destagionalizzazione, dato che dell’estate non ci rimane praticamente nulla. La ripresa da una cosa che ci ha appena toccato, è stata lenta e farraginosa. Ma anche il futuro è rarefatto. Prolungare lo stato d’emergenza – ci viene in soccorso una citazione dell’avvocato palermitano Ennio Tinaglia – equivale al “certificato di esistenza in vita del governo”. Dei governi, forse.

La bulimia mediatica di Musumeci, durante il lockdown, ci ha consegnato infatti un governatore dal doppio piglio: spregiudicato, quasi arrogante, nel pretendere soluzioni da Palazzo Chigi, e nel tentativo di allargare le proprie sfere di competenza (è riuscito a far approvare una legge che gli dà, in situazioni d’emergenza, “poteri commissariali” in deroga a qualunque normativa vigente); timido, sin troppo, quando ha dovuto assumere decisioni che lo riguardassero da vicino. Aver chiuso i supermarket nei giorni di festa, e limitato per lunghi tratti la pratica dell’asporto, ha ridimensionato le velleità dei locali commerciali, sopraffatte dal blocco dei consumi. Ma anche aver rinviato sine die il ritorno in patria dei siciliani – persino dopo il primo abbattimento dei confini del 4 maggio – ha provocato dissapori sparsi. Eppure Musumeci ha beneficiato della crisi: le ultime rilevazioni del Sole 24 Ore indicano che il gradimento è cresciuto di qualche punto percentuale rispetto al giorno delle elezioni. Il governatore è dodicesimo a livello nazionale, il terzo per incremento medio del consenso.

Ma a proposito di sondaggi, un altro personaggio sulla cresta dell’onda – soprattutto grazie al Covid – è stato il sindaco di Messina Cateno De Luca, che è risultato il secondo più amato d’Italia (dietro il barese Antonio Decaro). De Luca, dopo mesi di silenzio pressoché totale (per delicate vicende di famiglie), negli ultimi giorni è tornato sulla scena. E parte da un’esperienza di fondo che in pochi possono vantare: durante i mesi della pandemia è apparso su tutti i talk-show nazionali, ha vietato fisicamente l’approdo dei traghetti al porto di Messina, ha varato la banca-dati “Si passa a condizione che…”, ha istituito i droni di controllo con la sua voce impressa, ha insultato in maniera poco garbata la Ministra dell’Interno, che gli ha intentato causa per vilipendio. Ha, semplicemente, trionfato sui social: le sue dirette erano l’appuntamento più atteso del prime-time e sono riuscite a collezionare centinaia di migliaia di visualizzazioni. Il sindaco in trincea ha ottenuto la benedizione di Matteo Salvini e insidia Musumeci per la corsa alla presidenza. Un ritorno del Covid – speriamo mai – darebbe senz’altro risalto alla loro eccentrica rivalità.

Prima, però, vengono le cose serie. Ammesso e non concesso che il virus si rifaccia vivo, la Regione – al momento non c’è un solo malato Covid in terapia intensiva – ha già predisposto un piano con mille posti letto (fra intensiva e sub-intensiva). E ha già stabilito quali ospedali rimarranno Covid, e quali lo diventeranno. La sanità nostrana, che l’emergenza ha rivalutato (un paziente bergamasco, che ha vinto la battaglia al “Civico” di Palermo, si è tatuato la Trinacria sulla pelle), è pronta ai blocchi di partenza. Ha imparato la lezione, ha contingentato tempi e ventilatori polmonari, ha coniugato l’interesse pubblico e quello dei privati, esaltato le eccellenze (vedi Ismett). E sta offrendo, senza averne obbligo, test sierologici e tamponi ai disperati che arrivano sui barconi. In balia del mare e di un’Europa deficitaria. Questo elenco, da solo, dovrebbe indurci a sperare senza disperare. E invece…