Dietro il partito “in grande salute, unito e forte” rappresentato da Renato Schifani nel corso dell’ultima convention di Forza Italia a Noto, sabato scorso, ce n’è un altro che chiede la testa di Marcello Caruso, il coordinatore regionale, reo di non aver rappresentato abbastanza (anzi, per niente) il gruppo all’Ars al momento della nomina dei due tecnici (Dagnino e Faraoni) in giunta. E se il manifesto della due giorni isolana di Antonio Tajani è la foto festante ai piedi della scalinata della cattedrale, in controluce prevale il malumore delle due ali ribelli che vanno convergendo. Basta chiedere a destra e a manca, purché non ci siano taccuini di mezzo, per veder fioccare le conferme: Marco Falcone ed Edy Tamajo, che alle ultime Europee hanno raccolto oltre 220 mila preferenze in due, sono tornati a fiutarsi e a parlarsi. E magari, un domani non troppo lontano, torneranno a coalizzarsi per far contare maggiormente la propria voce.

All’ammazzacaffè di sabato scorso, dopo la cena “ufficiale” di partito, si sarebbero presentati anche loro. Ma ciò che impressiona del racconto di Mario Barresi su La Sicilia è la presenza di due convitati di pietra: da un lato Totò Cardinale, ex ministro della Comunicazione e maestro di Tamajo; dall’altro Raffaele Lombardo, fondatore di Grande Sicilia che con il suo Mpa – grazie agli ottimi uffici di Tajani – è federato con Forza Italia. Ma che negli ultimi tempi è tornato a spargere sospetti sull’amministrazione della sanità e sulla mancata concessione di un secondo assessore agli Autonomisti.

Sembrano scene di una congiura, anche se per il momento nessuno oserà rompere il giocattolino, rovinando la festa al segretario nazionale (oltre che ministro e vicepremier): lo stesso Tajani sarebbe rimasto impressionato dalla coesione mostrata da Forza Italia, dall’unità d’intenti professata a Noto, dal catalogo dei risultati che avrebbe generato nel capo della Farnesina la voglia smodata di affidarsi a Schifani per un secondo mandato (che inizierebbe quando il presidente avrà già compiuto 78 anni). Eppure questa FI è un partito sfilacciato tra le anime che non trovano pace, ma che trovano sempre una buona occasione per le rimostranze: vedi il voto segreto all’Ars (anche se tutti si discolpano). Restano un paio d’anni per trovare la quadra e la prima occasione sarà quella della manovrina: una sorta di giro di boa della legislatura, che potrebbe decidere molto del destino di questa coalizione.

Dove, per inciso, alberga un altro partito in difficoltà. E’ Fratelli d’Italia. Perché nessuno lo ricorda abbastanza, ma da qualche settimana è stato rimosso il doppio coordinamento per la Sicilia orientale e quella occidentale e Giorgia Meloni, stanca dei suoi cacicchi che continuavano a farsi la guerra, ha assegnato le redini del comando a un commissario: Luca Sbardella. From Rome with love. Questa fase serve a ripulire l’immagine dei patrioti e far circolare l’aria nella stanza dopo i numerosi scandali che hanno interessato le due branche preminenti: il Turismo e la Cultura (coi famosi contributi incamerati dalle associazioni vicine a Carlo Auteri, fresco di dimissioni da FdI).

Quella fase – a dispetto dei selfie, sempre numerosissimi, dei dirigenti di partito – non è stata ancora superata. Tanto meno archiviata. Nelle posizioni di vertice del governo sono rimasti donne e uomini di Manlio Messina, che si è dimesso da vicecapogruppo alla Camera dopo lo scoppio della bolla; mentre la sfera d’influenza dei musumeciani è rimasta tale e quale nella sanità (con Razza a sostegno di Ferdinando Croce, almeno fin quando la revoca da Direttore generale dell’Asp di Trapani diventerà definitiva). Peraltro FdI stoppa la nomina del nuovo Direttore generale dell’Asp di Palermo finché non si sarà aggiudicato una poltrona di rilievo (aspira alla Pianificazione strategica). Ma c’è anche una terza corrente, quella di Ignazio La Russa, che potrebbe utilizzare Sbardella come leva per togliersi di dosso l’ingombrante presenza di Schifani e raggiungere l’obiettivo (che per il momento ha le fattezze del sogno e nulla più): candidare Galvagno alla guida della Regione nel 2027. Un’ipotesi che il diretto interessato continua a smentire.

La fase commissariale, più che rimettere ordine nell’album delle figurine, sta facendo sorgere sempre più interrogativi sul futuro di un partito che non può (ancora) contare su una classe dirigente formata e affidabile; ma anche sulla strategia, che – con la paralisi determinata all’Ars per evitare il trionfo di Schifani – potrebbe avere serie ripercussioni sull’attività parlamentare e sui risultati ottenuti dal governo. Cui prodest?

Fra i grandi partiti in crisi, infine, non si può non citare il Pd. Questo congresso smozzicato, da cui il segretario Barbagallo vorrebbe ripartire per sfidare la destra, non ingrana. Prima il ritiro sull’Aventino del gruppo dell’Ars (quasi al completo) dopo aver denunciato brogli per la votazione del regolamento; poi il lavoro della commissione di garanzia che non si è ancora pronunciata sui ricorsi presentati dai ‘ribelli’ per ingolfare la nomina del vecchio/nuovo segretario (cioè l’unico rimasto in campo). Per non parlare della sfuriata di Cracolici contro Schlein e dell’impassibilità di quest’ultima, che dopo aver inviato un arbitro (Nico Stumpo), non ha più proferito verbo sulla vicenda.

Il Pd, da tempo, ha smesso di essere attrattivo; e da ancora più tempo continua a fornire assist a Schifani & Co. per dilagare in tutte le competizioni elettorali. Facendo prevalere le ragioni della rottura a quelle dello stare insieme. Preferendo la via degli inciuci a quella dell’opposizione. Se Barbagallo dovesse vincere la battaglia congressuale ma un terzo degli iscritti, come sembra, dovesse disertare le urne, sarà un altro passo indietro sul fronte dell’immagine e della credibilità.