Giorgia Meloni ha fatto tabula rasa dei centristi. Nemmeno Maurizio Lupi, uno buono per tutte le stagioni, ha avuto la ricompensa di un ministero nonostante la lealtà sconfinata nei confronti di una coalizione che, forse, non ha più bisogno di una quarta gamba. Numeri alla mano, il mega contenitore di sigle che accoglieva, oltre ai moderati di Noi con l’Italia, anche i partitini di Lupi, Brugnaro e Cesa (l’Udc) è rimasto ben al di sotto della soglia di sbarramento (ha preso più voti ‘Sud chiama Nord’ di Cateno De Luca), riuscendo comunque a portare a casa qualche eletto grazie ai collegi uninominali: come in Sicilia, dove Saverio Romano – già ministro ai tempi di Berlusconi – è riuscito ad aggiudicarsi la sfida di Bagheria e ritornare alla Camera.

Ciò non toglie l’effettiva marginalità di queste compagini politiche, spiazzate dal ritorno di fiamma del Cav. (che ha quasi raddoppiato le previsioni di Forza Italia nei sondaggi) e dal predominio della destra e di Fratelli d’Italia all’interno di una coalizione dove lo spazio è sempre meno. Non che altrove ci siano praterie: l’abbinamento fra Renzi e Calenda, che in Sicilia non ha sfondato, costituisce forse l’argine per futuri esperimenti di cespugli non meglio identificati, che tornano spesso utili per far saltare i governi, ma al momento di costruirli quasi non esistono.

Una realtà che merita di essere declinata anche nell’Isola, partendo da un dato clamoroso. Cioè che l’esperienza di Nello Musumeci alla presidenza della Regione sia terminata con una valanga di assessori provenienti da quell’area: gli Udc Daniela Baglieri e Mimmo Turano, passando per l’ex popolare Toto Cordaro, senza dimenticare Roberto Lagalla, che si era dimesso dal suo ruolo per candidarsi a sindaco di Palermo (subito rimpiazzato da Aricò), alla fine di marzo. Oggi l’Udc non esiste praticamente più. Nonostante la messe di voti raccolte in passato, il partito si è liquefatto di fronte alla prospettiva di non superare la soglia di sbarramento che in Sicilia è più alta che a Roma: il 5 per cento. Così Cesa, sempre così addentro alle questioni siciliani, ha dovuto ricollocarsi alla meno peggio nella DC di ultima generazione – quella di Totò Cuffaro – dovendo comunque rinunciare alla prerogativa di poter candidare i deputati uscente. Da qui la diaspora.

Mimmo Turano ed Eleonora Lo Curto, due ras del consenso dell’area trapanese, sono migrati addirittura alla Lega, dove il primo è riuscito a strappare una riconferma all’Ars con oltre 7 mila voti (l’altra, invece, è rimasta fuori). Toto Cordaro, che dopo aver abbandonato il partito di Saverio Romano, aveva seguito Lagalla sotto l’ala protettiva di Cesa, è durato non più di 25 giorni: di fronte all’assenza di un orizzonte certo, ha fatto i bagagli e, alla vigilia della consegna delle liste, ha trovato riparo in Fratelli d’Italia. Con Musumeci e Razza. Anche Daniela Baglieri, che di voti ha confermato di non averne (poco più di 200 preferenze) è stata accolta da Forza Italia e candidata a Ragusa, la sua provincia d’origine: un flop. L’unica donna che ancora resiste, saltellando da un incarico all’altro, è Ester Bonafede: ex assessore del governo Crocetta e mancata sovrintendente della Foss, è stata premiata per la lunga militanza con Taormina Arte. E ha sbottato contro Turano, quando quest’ultimo ha voltato le spalle per cercare ventura nel Carroccio, candidandosi anche al Senato.

Nel prossimo parlamentino siciliano ci sarà comunque qualche esponente del vecchio Udc, che ha trovato ospitalità da Cuffaro: ad esempio la moglie di Decio Terrana, l’attuale segretario regionale, ovverosia quella Serafina Marchetta che è stata paracadutata nel listino di Schifani e che forse, ottenuto il premio, ha preso la campagna elettorale un po’ sottogamba (raggranellando appena 25 voti). Mentre il marito non è riuscito a farsi eleggere nel collegio di Agrigento. Ci sarà anche Ignazio Abbate, ex sindaco di Modica, che nella sua provincia ha fatto il boom, ottenendo la prima elezione a palazzo dei Normanni: il suo rappresenta un successo personale, ancor prima che di partito, se ce n’è uno. Due parlamentari sono un po’ pochini per pensare a gruppi separati, ma almeno Abbate potrebbe concorrere per un posto in giunta (sempre che Cuffaro acconsenta).

Ma la Sicilia è una terra particolare, e altri centristi se ne trovano qua e là. La Dc, al netto dei due di cui sopra, è riuscita a far eleggere Nuccia Albano a Palermo e due ex sindaci: quello di Ribera, Carmelo Pace, e quello di San Giovanni La Punta, Andrea Messina. Totalizzando il 6,5 per cento delle preferenze. E poi ci sono gli Autonomisti: che in attesa dell’ufficializzazione dei risultati delle province di Catania e Messina, porteranno all’Ars quattro deputati, tra cui il nipote assessore (a Catania) di Raffaele Lombardo: Giuseppe. Ma la colomba bianca (al netto del contributo di Saverio Romano e del suo Cantiere Popolare) è un caso a parte. E’ riuscita a destreggiarsi nonostante fosse presente soltanto su una scheda (quella verde) e senza poter contare sull’effetto trascinamento dei partiti impegnati alle Politiche. Anche se l’esclusione in extremis di Luigi Genovese, figlio di Francantonio, resta una ferita aperta (il rampollo di casa è stato superato dal partito di De Luca per una manciata di voti), il Mpa otterrà in giunta il riconoscimento che merita: almeno un assessore (e di peso, se si considera che Roberto Di Mauro è in corsa per l’Economia).

In quest’Isola che si è sempre rivelata un intenso laboratorio politico, e dove il Terzo Polo mastica amaro per aver sbagliato strategia e soprattutto candidato, c’è una zona cuscinetto – presidiata da Lombardo e Cuffaro – dove è impossibile affondare gli artigli. Anche per una rapace di consensi come la Giorgia nazionale.