Due colpi secchi, arrivati da Palazzo Chigi, hanno messo in imbarazzo, quasi in ridicolo, il governo e il parlamento regionale. Entrambi in materia sanitaria. Entrambi con un impatto politico pesante. Il primo riguarda l’assunzione di medici non obiettori nei reparti dedicati all’interruzione volontaria di gravidanza. Il secondo, lo stanziamento di 15 milioni per tamponare gli effetti del nuovo nomenclatore tariffario sui laboratori d’analisi.
Sul fronte dell’aborto, la scure del Consiglio dei ministri si è abbattuta sull’articolo 2 della legge regionale n. 23, approvata a fine maggio, che obbligava le aziende ospedaliere a garantire la presenza di medici non obiettori nei reparti di Ginecologia e Ostetricia e a sostituirli in caso di successiva obiezione. Una norma presentata come un passo avanti sui diritti, ma che Roma ha bollato come incostituzionale: le Regioni – si legge nell’impugnativa – non possono vincolare i concorsi pubblici a requisiti etici e morali, tanto più variabili nel tempo, né restringere la platea dei candidati sulla base di un’opzione di coscienza, riconosciuta dalla Costituzione e tutelata come libertà fondamentale. In altre parole, sarebbe stata una discriminazione in piena regola, lesiva del diritto stesso all’obiezione. La norma, peraltro, era passata all’Ars grazie a un voto trasversale, con un pezzo della maggioranza in rotta di collisione con Schifani e l’opposizione a fare da sponda. Oggi Fratelli d’Italia, che aveva contestato il provvedimento, canta vittoria.
Il secondo schiaffo è più pesante, giacché Schifani si era battuto di persona, e riguarda i laboratori d’analisi. A giugno, con la manovra bis, il governo aveva destinato 15 milioni alla specialistica ambulatoriale privata per il 2025, per alleggerire l’impatto del nuovo tariffario nazionale voluto dal ministro Schillaci, che rischia di mettere in crisi decine di strutture convenzionate. Ma anche qui il Consiglio dei ministri ha impugnato la norma: in Sicilia – si legge – non esiste copertura per i nuovi costi, né compatibilità con il piano di rientro dal disavanzo sanitario (da cui Schifani intende uscire al più presto, almeno a parole). La Regione, che ha un buco preventivato di 216,79 milioni nel 2025, non ha trasmesso alcuna valutazione dell’impatto finanziario né rispettato gli adempimenti per ottenere deroghe sulle tariffe massime nazionali. Risultato: norma cassata. E laboratori ancora senza paracadute.
Non è la prima volta che Roma bacchetta il governo regionale. Anche in occasione dell’ultima Finanziaria, il Ministero dell’Economia ha contestato le modalità di spartizione delle mance (previste dal cosiddetto “collegato”, per un totale di 60 milioni): «Mancano criteri obiettivi e trasparenti nella scelta dei beneficiari». Si era arrivati a un passo dall’impugnativa, poi è stata l’opera di mediazione del presidente della Regione, con la promessa di non ripetere mai più i fatti, a metterci una pezza. Peccato che la coesione del centrodestra ruoti attorno a queste norme “territoriali”, senza le quali non si canta messa.
Sul fronte parlamentare, le batoste non sono state meno dolorose. Emblematica la vicenda dei Consorzi di bonifica: riforma attesa da anni, promessa più volte e poi affossata dal voto segreto, con un manipolo di franchi tiratori – dentro la maggioranza – che ha mandato tutto gambe all’aria. Sono circa una decina ad aver deciso le sorti del provvedimento, scatenando la protesta degli agricoltori.
Non è un caso isolato. Ad aprile, nella stessa Aula, l’unico disegno di legge riuscito ad arrivare in dirittura d’arrivo – firmato dall’assessore al Bilancio, Alessandro Dagnino – è stato massacrato da 18 franchi tiratori. Quel provvedimento avrebbe consentito di aumentare le indennità per i manager delle società partecipate. Una norma impopolare, che ha scatenato malumori e vendette trasversali. Dagnino, anziché fare mea culpa, se l’è presa con i colleghi deputati: “Il sospetto è che alcuni abbiano intravisto nella norma una riduzione degli spazi del sottogoverno. Altri si sono doluti persino del fatto che in questo modo gli amministratori delegati avrebbero potuto guadagnare più di un deputato”.
Prima ancora era toccato al Ddl per la reintroduzione del voto diretto nelle province: ci ha pensato Sala d’Ercole – bocciando la proposta della DC di Cuffaro – ad anticipare l’esito del Consiglio dei Ministri, che non avrebbe potuto sorvolare su un provvedimento viziato dalla mancata abrogazione della legge Delrio. E persino sulla “salva-ineleggibili”, architettata dai patrioti di Fratelli d’Italia per salvare la poltrona ad alcuni parlamentari a rischio incompatibilità, i numeri sono venuti meno. Una disfatta.
Ieri, infine, è toccato al fondo per l’editoria, previsto dall’art. 2 della manovrina. Con voto segreto chiesto dalle opposizioni, la proposta dell’istituzione di un capitolo permanente del Fondo Sicilia dell’Irfis, destinato alle realtà editoriali dell’Isola, è stata impallinata: 37 i voti contrari e 30 i favorevoli. Quasi un deputato su 4 della maggioranza ha votato contro. E stavolta ad arrabbiarsi è stata la stampa parlamentare, che aveva anche incassato la possibilità di destinare i contributi alle testate con almeno due giornalisti contrattualizzati: che delusione…
Il quadro è quello di una maggioranza aritmeticamente solida ma politicamente liquida, incapace di blindare provvedimenti chiave, e di un rapporto con Palazzo Chigi che si fa sempre più problematico. Schifani alterna silenzi a scaricabarile, mentre sul terreno restano le figuracce istituzionali. Dove non arriva la mano ferma di Roma, ci pensano i franchi tiratori a far deragliare i progetti del governo. Per evitare che ciò accadesse anche con la manovra-ter in discussione all’Ars, ha dovuto stralciare dal testo la metà degli articoli e imporre la ‘tagliola’ per evitare lungaggini all’iter parlamentare. Non è detto che basterà.