Tranne quella di Claudio Fava, a sinistra non c’è una-faccia-una che incarni cinque anni di dura opposizione a Nello Musumeci e al suo governo sgarrupato, incapace di mandare in porto una sola riforma, di chiudere un bilancio per tempo o di liquidare un carrozzone. E’ come se Partito Democratico e Movimento 5 Stelle avessero gettato la spugna sul più bello. Lo conferma l’azione flemmatica degli ultimi mesi, ma anche e soprattutto le scelte operate alla vigilia delle primarie (in programma il 23 luglio), che confermano un gap incolmabile sui fallimenti di quest’esecutivo.

Dalle presentazioni di Chinnici e Floridia non è emersa una parola sugli ultimi cinque anni della Regione. Forse perché ne sanno poco entrambe. La Chinnici, donna delle istituzioni se ce n’è una, ha tergiversato a lungo prima di accettare l’investitura del partito. Un partito, il Pd, che per buona parte della legislatura s’era dimostrato – al netto delle perdite (Sammartino & Co.) – un’autentica spina nel fianco del governatore. Soprattutto sui temi della sanità. Ma da qualche tempo a questa parte il leone ha smesso di ruggire. Preferendo il volto rassicurante, la limpidezza morale e le parole misurate di un magistrato perbene, assai lontano dalla garra politica. E dalle questioni più rilevanti dell’ultimo quinquennio. A partire dalla gestione dell’Orchestra Sinfonica Siciliana, un ente lirico soggiogato dalla prepotenza politica dell’assessore Manlio Messina, su cui il Pd non ha aperto bocca (al suo posto è intervenuto Micciché); per non parlare dello scandalo dell’Ente minerario – della serie ‘carrozzone che vai, scandalo che trovi’ – che il governo Musumeci non è mai riuscito a disincagliare. Anzi.

Ma a questi temi la Chinnici è poco avvezza. Nei suoi incontri a Villa Filippina e ad Acireale ha fatto leva su altro. Si è mossa in punta di piedi, come fanno i leader nazionali quando vengono nell’Isola a parlare di blocco navale o reddito di cittadinanza, perché non conoscono nel dettaglio le questioni più impellenti. Fa quasi tenerezza sentire dalla voce di chi si candida a diventare il prossimo presidente della Regione che “fondamentale sarà ascoltare per individuare soluzioni insieme con coloro che si misurano ogni giorno con le difficoltà”. O, piuttosto, che “fa tanta rabbia vedere che i nostri ragazzi vanno via perché non siamo in grado di dare opportunità per realizzare il loro futuro”. Ma i temi di governo in Sicilia sono altri. E’ indubbio che tutti vorrebbero annientare la disoccupazione o colmare il gap con le regioni del Nord, ma è altrettanto ovvio che non ce la faranno. Perché, allora, non concentrarsi sulle vere emergenze, come quella dei rifiuti? O non buttare giù le basi per una gestione meno “privatistica” delle partecipate regionali, che negli ultimi anni – vedi Azienda Sicilia dei Trasporti – ha prodotto solo un mare di guai e tanta indignazione?

L’ha fatto, o ci ha provato, la commissione Antimafia diretta per l’appunto da Claudio Fava. Ma non basteranno decine di relazioni di denuncia – rispetto a un sistema politico infiltrato da clientelismo e corruzione – per fare piazza pulita e offrire alla Sicilia buone pratiche di governo, se il resto della compagnia rimarrà a osservare il panorama (in attesa che si consumi la pratica della Finanziaria per attingere a qualche regalia per il proprio collegio elettorale). Ma non una parola su questo aspetto è stata pronunciata da Barbara Floridia – altra donna delle istituzioni se ce n’è una – che è stata calata dal suo Movimento in un contesto totalmente avulso dai ministeri romani dorati e accoglienti. Cancelleri, a differenza sua, almeno s’era creato una corazza, frequentando i palazzi siciliani e imparando, dal di dentro, cosa significasse fare opposizione. Ma la Floridia?

In conferenza stampa, l’altro giorno, ha provato a mostrare gli artigli. Ha detto che la Sicilia non è soltanto la sua regione, ma soprattutto “la sua Ragione”, con la “a”. Ha spiegato di non essere una papessa straniera perché ha sempre collaborato col gruppo parlamentare. Ma non ha dato prova del suo legame con questo “mondo”. Non ha detto perché Musumeci e il centrodestra non vanno più bene. Non ha detto cosa prevede l’alternativa. Non ha pronunciato una parola sullo scandalo immobiliare, con la Regione che prova tuttora a costruirsi un centro direzionale senza aver mai completato un censimento dei suoi beni; non s’è indignata per la gestione familistica dell’Oasi di Troina da parte di Diventerà Bellissima, il movimento del governatore; non s’è soffermata sui termovalorizzatori, che per un pezzo della sua compagine (la più competente) è la testimonianza di un abisso rispetto a chi comanda, che con la sua “gestione scellerata” (Zuccaro dixit) ha finito per favorire il business dei privati nelle discariche. Non ha spiegato quale sarebbe ‘sto “valore aggiunto”, considerato che anche in Sicilia Pd e M5s governano insieme parecchie città, e hanno avuto modo di testare forme ibride di collaborazione.

La scelta di queste due figure non rappresenta l’antitesi alla destra e Musumeci. E’ l’esatta metafora dell’ultima parte del percorso politico. Dove a un’assenza di attività di governo (innegabile: specie dopo l’approvazione del Bilancio), s’è unita la carenza delle opposizioni, sempre più impegnate ad affinare le strategie per riconquistare qualche poltrona (dalle Amministrative in giù). E poco propense a segnalare, denunciare, combattere, irritarsi. La nuova fase, quella dei partiti ‘nascosti’, prevede la celebrazione di sei incontri tematici – i temi saranno stabiliti dagli sherpa che hanno costruito le regole del gioco: si parlerà di ambiente, di lavoro, di questione morale, ecc. – dove solo un candidato su tre saprà spiegare in cosa ha fallito Musumeci. Mentre le altre due punteranno sul politicamente corretto, sul garantire una nuova immagine di Sicilia: benevola, ma fuori dal tempo.

Non diranno una parola sui peccatucci del ‘cerchio magico’, non faranno le crociate per i 2 milioni spesi alla Mostra del cinema di Cannes, né per i 700 mila euro di fondi europei usati per finanziare uno spot celebrativo del “governo del fare”; non si faranno insospettire dalla pioggia di milioni caduta su 124 comuni siciliani alla vigilia della tornata elettorale per il completamento di alcuni cantieri e infrastrutture; né per i tempi elefantiaci nella gestione della sanità post-Covid; tanto meno dai ritardi dell’ultimo accordo finanziario con Roma, che dovrebbe – pompando 600 milioni freschi freschi nelle casse di palazzo d’Orleans – garantire lo sblocco dell’ultima Legge di Stabilità, approvata al buio come le altre. Non l’ha fatto chi, al posto loro, è rimasto in trincea per quattro anni, decidendo di abdicare alla fine. Preferendo la forma alla sostanza. O un faccino ridente e immacolato, alla fatica dei lavori parlamentari. Figurarsi se lo faranno loro, Chinnici e Floridia. Scese da Marte fino in Sicilia per prendersi lo scettro del ‘’campo largo’. E poi, magari, perdere come sempre l’unica partita che conta: quella per governare.