A Nello Musumeci basterebbe ammettere, per una volta, che il governo s’è mosso in ritardo. Sebbene, in conferenza stampa, l’assessore alla Salute, Ruggero Razza, sosteneva di non aver perso “neanche un’ora”. Eppure, ad aver influito sulla connotazione “arancione” della Sicilia è – soprattutto – la melina sul fronte sanitario. Il nuovo piano per l’emergenza è stato presentato in commissione Salute, all’Ars, soltanto martedì scorso, quando a Roma ribollivano le discussioni sulla classificazione del rischio. Basate, fra l’altro, su un report non aggiornato dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Il quale, per inciso, era stato particolarmente benevolo con la Regione: risultavano a norma, infatti, sia i parametri relativi alla capacità di riempimento della Terapia intensiva (sotto la soglia critica del 30%) che degli altri reparti di area “non critica” (Malattie infettive, Pneumologia, Medicina generale).

Il quadro sarebbe dovuto peggiorare entro il mese successivo: “probabilità alta di progressione”, recitava lo studio. A differenza di Lazio e Campania, dove il rischio è solo “moderato”. Alla Sicilia, come noto, sarebbe servito l’adeguamento delle strutture sanitarie. Siamo stati lenti. La Regione, infatti, non è riuscita ad attivare per tempo i 613 posti individuati dal Decreto Rilancio (siamo fermi a 588), e ha messo in funzione solo una parte dei 215 ventilatori polmonari inviati dal commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri. Quarantacinque sono ancora imballati. Razza rifiuta l’idea di non aver speso i fondi messi a disposizione dallo Stato – “Non abbiamo visto un euro, ma stiamo comunque partendo coi lavori” – e ribatte con la storia che “molte regioni erano messe peggio”.

Fra le contestazioni mosse alla Sicilia, in parte ammesse dall’assessore, c’è quella relativa al progressivo aumento dei focolai, e all’istituzione di troppe “zone rosse” (le ultime a Vittoria e Centuripe, prima era toccato a Villafrati, Galati Mamertino, Torretta, Randazzo). Non siamo ancora in linea sul numero delle Usca, le Unità specialistiche di continuità assistenziale, ossia le équipe che seguono il percorso dei “positivi” dall’avvenuto contagio alla negativizzazione. La Regione aveva promesso di attivarne una ogni 25 mila abitanti. Infine, siamo scivolati sul contact tracing: data la crescita dei contagi (clamorosa negli ultimi venti giorni) è divenuto sempre più difficile – per le carenze di personale – individuare tutte le persone con cui i “positivi” sono entrati a contatto, e metterle in isolamento fiduciario in attesa del tampone.

Ciò che non emerge dai freddi numeri dell’ISS – ma da alcune foto ben documentate sì – sono le code nei Pronto soccorso. Al “Civico” di Palermo si sono radunati, nello stesso momento, fino a 50 “positivi”, venti in più dell’abituale capienza. Alcuni sono rimasti in ambulanza, perché le postazioni per l’ossigeno non bastavano. Una scena vista anche al “Policlinico”, dove vengono trattate le urgenze non Covid, a Partinico, Paternò, Gravina di Catania e Ragusa, dove in tanti, troppi sono rimasti ad aspettare, in ambienti promiscui o sui mezzi di soccorso, l’assegnazione ai reparti. Anche sul personale, siamo un filo indietro: la Regione ha indetto un concorso per volontari, allo scopo di organizzare un mega screening “di massa” nelle principali città, e ha dovuto assumere a tempo determinato alcuni specializzandi al quarto e quinto anno di Medicina, per sopperire alla cronica assenza di anestesisti e rianimatori (fino a qualche giorno fa mancavano 250 figure professionali).

E i tamponi? Secondo uno studio settimanale del Comune di Palermo, che Razza ha contestato apertamente, siamo una delle Regioni che ne fa meno: 13.954 test per 100 mila abitanti (sono quasi il doppio a livello nazionale). La media giornaliera, di recente, si è innalzata grazie all’ausilio dei test rapidi antigenici, come alla Fiera del Mediterraneo di Palermo: i “positivi”, da protocollo, vengono subito sottoposti al tampone molecolare di conferma. Questo rimbalzo non ci impedisce, tuttavia, di essere tra i peggiori. Merita un capitolo a parte, infine, il tema dei posti letto: col piano per l’emergenza, che entrerà a pieno regime solo il 30 novembre, si arriverà a 416 posti in Terapia intensiva. Attualmente, mancano pochissimi ricoveri (siamo a 157) per raggiungere la soglia critica del 30%, fissata a 176. In teoria, schizzeranno verso l’alto anche i posti di degenza ordinaria: 2.394.

Tutti questi verbi coniugati al futuro, però, gettano un’ombra sull’estate 2020, che poteva (e doveva) essere diversa. Ma è un ragionamento che non riguarda soltanto la sanità, bensì l’economia. Se gli effetti del primo lockdown sono noti (tracollo del Pil, 76 mila posti di lavoro bruciati), non è dato sapere quante attività – a fronte di una chiusura anticipata (alle 18) o totale (come palestre o luoghi di cultura, ma da ieri anche bar e ristoranti) – resisteranno alla seconda ondata. La Sicilia va incontro a previsioni cupe; alla difficoltà di garantire i livelli occupazionali già precari, e di conservare attività stritolate da un’economia di per sé fragile. Non siamo il terreno delle grandi industrie, ma di aziende medio-piccole, spesso a conduzione familiare, che la tempesta rischia di spazzare via.

Cioè le microimprese per le quali il governo della Regione aveva imbandito un banchetto succulento, garantendo un prestito a fondo perduto da 5 a 35 mila euro, prima che qualche tecnico incompetente (Musumeci ha disposto un’ispezione per risalire ai responsabili) facesse saltare il banco del click-day. L’avviso relativo al Bonus Sicilia è stato ripubblicato ma questa volta, anziché garantire ristori celeri e mirati, si accontenterà di spartire le briciole (fino a un tetto massimo di 3.500 euro). Questo provvedimento dice tutto di una politica regionale assente, che non lesina critiche a Palazzo Chigi, ma mostra una latente impreparazione nella gestione dell’emergenza. Anche i cento milioni dell’assistenza alimentare, promessi da Musumeci alla fine del mese di marzo, sono rimasti in ghiaccio: solo una parte, il 30%, è stato erogato in favore dei Comuni (alcuni dei quali hanno rinunciato a spenderli, avendo problemi di rendicontazione). Gli altri sono bloccati negli uffici della burocrazia, che non ha ancora riprogrammato le somme impegnate nell’ultima Finanziaria.

Scrivere una legge di bilancio sulla sabbia, e legare il suo destino a cifre “incerte” – come i fondi comunitari e i fondi Poc – ha generato un “buco” difficile da sopportare. Gli altri avvisi pubblicati dalla Regione riguardano i voucher per gli operatori turistici – ma quando si ritornerà a viaggiare? – e l’esenzione dal bollo auto (i cui termini sono stati prorogati). Mentre è fallito l’altro click day, quello per i tassisti e i noleggi con conducente, con una decina di milioni in palio. Non si è visto un euro per la riapertura in sicurezza della scuola. Tanto meno per i Comuni, che rischiano il default se i 115 milioni annunciati da Palermo, impelagati in una rimodulazione da brividi (sarà Roma a decidere), non dovessero arrivare. Li hanno già iscritti a bilancio. Non ci sono i fondi per l’agricoltura, per la pesca, per rifare le facciate delle case. Per gratificare l’impegno degli operatori sanitari, cui era stato promesso un bonus da mille euro per aver combattuto in prima linea contro il virus. Il governo è piantato. Immobilizzato dalla propaganda e da questioni di lana caprina, che non risolveranno i problemi di questa terra. Figurarsi con una pandemia in corso.