Il timido Luca Sbardella, come nella miglior tradizione di Fratelli d’Italia, vorrebbe ricominciare a dettare legge. Ha già dettato a Schifani la lista dei desiderata dopo il giovedì nero all’Ars: e cioè, revoca dell’incarico alla Pianificazione strategica per Salvatore Iacolino, piena condivisione della prossima Finanziaria (mance incluse) e depotenziamento del leghista Sammartino. Poi, più per convenienza che per reale convinzione, ha imbracciato il fucile contro il voto segreto, che il suo stesso gruppo parlamentare ha utilizzato in abbondanza, qualche giorno fa in aula, per massacrare il governo.
I patrioti vogliono comandare. Non è bastato lo scandalo giudiziario che ha coinvolto – finora senza conseguenze – il presidente dell’Ars Galvagno e l’assessore al Turismo Amata, entrambi indagati per corruzione (Galvagno anche per peculato); non sono bastati gli scandali del Turismo, con milioni di euro bruciati per sempre; né il caos provocato con i contributi culturali dall’ex Carlo Auteri (oggi migrato alla Democrazia Cristiana), che ha di fatto inaugurato un commissariamento dal quale si fatica a intravedere l’uscita. Eppure Sbardella pretende di scrivere il copione, di gestire le pedine del sottogoverno, di rivendicare il controllo dei due miliardi di avanzo di amministrazione che, probabilmente, debutteranno nella prossima manovra. E la cosa peggiore è che Schifani glielo lascia fare: per salvare la pelle, sua e del governo; per conservare i rapporti amicali e privilegiati con Ignazio La Russa, padrino e mentore; per non rattristare Giorgia Meloni, già in pena per il suo povero partito al di qua dello Stretto.
Ma andiamo con ordine. Da una dichiarazione apparsa sul Giornale di Sicilia, che segue il vertice di maggioranza di lunedì, Sbardella ha provato a mettere un altro po’ di pressione su Schifani: “Al momento abbiamo incassato solo promesse. C’è stato un patto fra gentiluomini. E la crisi è superata se i patti si rispettano”, avrebbe riferito il deputato romano. Il primo patto da rispettare è l’accantonamento di Salvatore Iacolino, cioè la goccia che ha mandato gambe all’aria la coalizione. Il super dirigente è in regime di proroga e, una volta approvato il consolidato, dovrebbe firmare il nuovo contratto che lo lega al dipartimento. Dovrebbe.
L’obiettivo di FdI è evitare che avvenga, magari attaccandosi a un cavillo. Difficilmente Sbardella potrà portare in plancia di comando Mario La Rocca (anche qui per questioni da fini giuristi), ma ciò che importa è dimostrare di avere il coltello dalla parte del manico, di poter condizionare – in cambio di un ricatto: la fuoriuscita dalla giunta – l’operato del presidente della Regione, di continuare a comandare con arroganza come si è sempre fatto.
I Fratelli di Sicilia, qualche mese fa, sono stati investiti in pieno da un’inchiesta giudiziaria che riguarda il loro principale rappresentante nell’Isola, anche a livello istituzionale: il presidente dell’Ars Gaetano Galvagno. Mentre l’assessore Elvira Amata, che ha gestito lo scettro e il portafogli del Turismo nel solco del Balilla, è accusata di corruzione per aver chiesto a Lady Dragotto, fra le altre cose, di assumere il nipote in una società di brokeraggio. Questi personaggi, nonostante l’etica pubblica e l’opportunità politica avessero suggerito il contrario, sono rimasti attaccati alla poltrona.
Galvagno con Schifani si è anche scontrato platealmente, dopo la conduzione dell’aula di giovedì scorso e i richiami a Dagnino e Forza Italia; l’Amata, invece, lo ha “condannato” a una figuraccia in seguito alla decisione della Film Commission di escludere il film dedicato a Biagio Conte dalla lista di quelli finanziati dalla Regione. Che sarà mai: perdono concesso. Piuttosto che perdere la faccia coi patrioti, il governatore ha preferito perderla con la produzione e con quelli della missione “Speranza e Carità”. Tutto ciò che è emerso dalle intercettazioni pubblicate dai media – l’auto blu usata come taxi, i contributi in cambio di utilità per il cerchio magico, i biglietti dei concerti a gratis – avrebbe provocato uno scossone ovunque. Ma in Sicilia no. E neppure la Meloni, attraverso i probiviri, è riuscita a far valere le ragioni della questione morale. Provvederà (forse) un giudice a Berlino.
Chi si è macchiato della stagione d’oro (sic!) della corrente turistica – da Cannes a SeeSicily, dagli eventi lirici alle mostre di Osaka – è rimasto al comando, non ha neanche cambiato ufficio. Non si è mai assunto le responsabilità di un fallimento (anche economico). Ciò nonostante Sbardella è nelle condizioni – nella sua veste di ambasciatore incaricato di rivoltare il partito come un calzino – di infilzare la coalizione, di minacciare la crisi, di pretendere una contropartita. Che sia una poltrona o un miliardo non importa.
A furia di rimestare sempre la stessa acqua, il commissario è tornato pure sul voto segreto. Lo strumento che rappresenta l’esercizio preferito dei “malpancisti”, usato con spregiudicatezza anche dai meloniani. E lo fa rovesciando sul tavolo una provocazione del Pd: “Per l’ennesima volta il Partito Democratico dimostra di anteporre le beghe e i “giochetti” di Palazzo agli interessi dei siciliani: l’annuncio da parte del loro capogruppo di voler chiedere il voto segreto sulla nostra proposta di abolire il voto segreto all’Ars, infatti, è l’emblema della peggiore politica». Cioè quella che hanno praticato i suoi deputati, senza alcuna vergogna, per tentare di rovesciare il “regime”, o semplicemente per avvertirlo.
E insiste, Sbardella: “A parole moralista, il Pd non si smentisce mai nei fatti difendendo l’indifendibile, cioè uno strumento di cui nel Parlamento siciliano da sempre si abusa per consentire inciuci trasversali e sottobanco tra maggioranza e opposizione e che sta producendo effetti nefasti come la bocciatura di norme e provvedimenti vitali per la Sicilia. Abolirlo è una priorità non più rinviabile, come noi di Fratelli d’Italia abbiamo ribadito al presidente della Regione. Pertanto ci appelliamo al buon senso di tutta l’Ars- maggioranza e opposizioni- per porre fine al ricorso indiscriminato del voto segreto”. Caspita, come può il commissario pensare di archiviare – coraggiosamente – gli scandali e gli sprechi del suo partito, da sette anni a questa parte, se non ricorda neppure come ha votato ieri? Come potrebbe rinunciare, per vergogna, a uno strapuntino in più, se è questo il livello della sua moralità?


