Gaetano Galvagno, spinto nel tritacarne da una pesantissima inchiesta per corruzione e peculato, ha tutto il diritto di invocare la presunzione d’innocenza. Ed è anche libero, liberissimo di preferire la festa di Totò Cuffaro alla commemorazione di Paolo Borsellino, il giudice ucciso dalla mafia. Ma nessuno lo autorizza a imbrogliare le carte nel maldestro tentativo di confondere le idee ai magistrati, ai giornalisti e soprattutto ai siciliani. Per attutire il contraccolpo dell’avviso di chiusura indagine il presidente dell’Ars ha dichiarato che erano cadute “tutte le utilità personali” che gli erano state attribuite. Ha detto una bugia. Perché, a parte i biglietti a scrocco, un noleggio d’auto e il regalo di un vestito, tutti i traccheggi, le indecenze e gli scempi di denaro pubblico orchestrati da lui e dalla sua ape regina sono rimasti tragicamente in piedi.