L’emergenza non è ancora finita, ma le buone pratiche da un pezzo sono tornate in soffitta. In Sicilia, dopo l’estate, la pubblica amministrazione ha preferito riattivare i canali ordinari – i terminali degli uffici – anziché il “lavoro agile”. E’ l’indicazione, nonché la forma mentis, dello stesso governatore Musumeci, che lo scorso giugno aveva sollecitato i capi dipartimento per avviare un rapido e progressivo ritorno “in presenza”. Nonostante la curva dei contagi, la Regione ha preferito ripiegare sull’usato sicuro e anche oggi, a fronte dell’introduzione della zona rossa, gli uffici della pubblica amministrazione fanno registrare un notevole affollamento.

E’ di martedì scorso una lettera della dirigente alla Funzione pubblica, Carmen Madonia, ai colleghi per fare il punto sullo smart working e ribadire un concetto: le scadenze vanno rispettate. Un invito implicito ad abbandonare l’idea del lavoro da remoto: nella lettera della Madonia, i capi dipartimento vengono invitati a valutare “la migliore soluzione organizzativa per lo svolgimento dell’attività lavorativa in presenza, esclusivamente per le attività che riterranno indifferibili e che richiedono necessariamente tale presenza connesse a scadenze imposte da leggi e contratti”, con la precisazione che “non è previsto alcun provvedimento per il differimento dei termini”. Se da un lato Musumeci forza un po’ la mano con le restrizioni, arrivando a minacciare il lockdown dato che i siciliani non hanno “la gravità del momento”, l’ente che amministra resta totalmente ignaro a queste dinamiche, come sollevato da alcune sigle sindacali: “E’ paradossale – osserva Angelo Lo Curto, del Siad-Csa-Cisal – che la Sicilia, in zona rossa e in piena emergenza, non renda obbligatorio lo smart working in tutti gli uffici pubblici. Peraltro i provvedimenti nazionali incoraggiano il lavoro a casa. Il governatore minaccia il ritorno al lockdown, gettando nello sconforto migliaia di imprenditori, ma dovrebbe essere il primo a dare il buon esempio in casa propria”.

In realtà la scelta del lavoro in presenza è stato il marchio di fabbrica per Musumeci & co., al di là delle varie proroghe dello stato d’emergenza da parte del governo nazionale, che ha sempre cercato di incentivare la “smaterializzazione” del lavoro d’ufficio. E non ingannino i numeri. L’ex assessore alla Funzione pubblica, Bernadette Grasso, aveva presentato uno studio, l’estate scorsa, secondo il quale la Sicilia ha avuto la platea più ampia di lavoratori in smart working durante il lockdown: 7.800. Ma il dato era tarato sullo sconfinato contingente di dipendenti a busta paga: 13 mila circa. Impossibile che qualcuno potesse fare meglio (il Lazio, la seconda regione, ne annovera 4.500 in totale). Eppure al presidente questa cosa non è mai andata giù. Il rapporto coi regionali non è mai stato il punto di forza della sua amministrazione (palesi e ripetute le accuse di “grattapancismo”), così anche sul lavoro agile si è aperta una crepa: “Ora vogliono stare ancora a casa per fare il lavoro agile – aveva enunciato Musumeci nel corso di uno dei suoi interventi, alle Giornate dell’Energia di Catania –. Ma se non lavorate in ufficio, come pensate di essere controllati a casa?”. Zero fiducia.

Così dopo aver tentato, invano, un primo assalto alla diligenza a metà giugno, a fine luglio il governatore ha spedito una nota ai capi dipartimento per accelerare le pratiche di rientro al lavoro chiedendo di adottare “le determinazioni necessarie ad assicurare il rientro in servizio già a partire dalla prossima settimana. Si invitano le signorie loro ad assicurare con la massima sollecitudine il progressivo rientro del personale negli uffici fino al totale dell’organico e a relazionare allo scrivente entro sette giorni dalla data di ricezione della presente”. Era il 30 luglio, piena estate. A offrire una sponda a Musumeci era stato l’allora dirigente dell’Energia, Tuccio d’Urso, che aveva minacciato di sospendere le ferie fino a ferragosto, mentre il rapporto tormentato fra lavoratori e datore di lavoro, alias “il colonnello Nello”, andrà avanti per tutto l’autunno, fino alla decisione di una querela collettiva da parte dei sindacati, che non hanno mai tollerato questa vis polemica.

Musumeci era stato tranchant su tutta la linea: “Qui non si fa un concorso dal 1991 – aveva detto nel corso di un’intervista -. Il più giovane (dei dipendenti, ndr) ha 58 anni. Non è gente digitalizzata, non è gente abituata a lavorare in un contesto assolutamente diverso, competitivo, come richiede oggi la pubblica amministrazione. Ed è con questa macchina che io devo fare i compiti giorno dopo giorno. E se richiamo un dirigente l’indomani ho lo stato di agitazione di tutte le sigle sindacali. Ho detto che l’80% dei dipendenti regionali è assolutamente inutile alle funzioni programmatiche della Regione. Lo ripeto. Anche se siamo passati dall’80 al 70% grazie al cielo. Il mio obiettivo è di arrivare almeno al 50%”.

Un’accusa a cui i sindacati replicarono con sconcerto: “Sorprende che a fare la predica sia proprio il capo di un governo che è riuscito, lui sì, a danneggiare le imprese siciliane con il flop del click day e della cassa integrazione: non ci risulta nessuno si sia dimesso, quindi farebbe meglio a tacere”. Il presidente, nelle numerose disamine “informatiche”, non ha mai fatto accenno al proprio sfacelo. Non s’è mai chiesto, pubblicamente, da dove derivi la carenza digitale dell’amministrazione regionale, che lui governa da tre anni. O che fine abbia fatto il know-how di Sicilia Digitale, la società che avrebbe dovuto informatizzare la Sicilia, e che oggi è una “scatola vuota” che non becca più una commessa; e soprattutto non è mai riuscito a dare una spiegazione sul perché i servizi, compresi quelli affidati all’esterno (come il click day sul Bonus Sicilia, di cui si è occupata Tim, o l’istruttoria della cassa integrazione in deroga, nella prima fase della pandemia) non abbiano funzionato a dovere. Oggi l’intero settore è coordinato da Arit, l’agenzia per l’innovazione tecnologica (simile a un dipartimento) sotto la supervisione di Armao. Ma i risultati non sono migliorati granché.

Non che in Italia le cose vadano molto meglio. Secondo l’ultimo rapporto di Bankitalia, l’unico settore ad avere beneficiato dello smart working è quello privato. Vanno peggio le cose nel pubblico dove resiste “un limite ‘naturale’ alla telelavorabilità di alcune funzioni del settore e un limite legato a ridotte competenze del personale”. Sembra un caso cucito addosso alla Sicilia. Nel documento dedicato alle Pubbliche amministrazioni, Bankitalia spiega che “i provvedimenti varati dal Governo per arginare il virus hanno portato a un forte utilizzo del lavoro a distanza nelle amministrazioni pubbliche. La percentuale di lavoratori che hanno lavorato da casa almeno una volta a settimana è passata dal 2,4% del 2019 al 33% del II trimestre 2020. A usufruire di più del lavoro da remoto sono state le donne e i lavoratori più istruiti”. Eppure, segnalano da via Nazionale, “l’uso dello smart-working è stato limitato però da diversi fattori”.

Roberto Scano, esperto di attività di monitoraggio e supporto ad aziende e amministrazioni pubbliche in tema di digitalizzazione, ha consegnato la sua versione dei fatti all’Huffington Post. Sembra la fotografia della situazione isolana: “Per molto tempo nel settore pubblico non c’è stata una misurazione delle competenze digitali. Poi sono stati avviati progetti di auto-valutazione che però hanno incontrato qualche resistenza tra i lavoratori. In alcuni casi, infatti, il dipendente può essere perfino restio a chiedere supporto nell’apprendimento digitale all’amministrazione per timore di apparire ‘incompetente’ e di venire accantonato”. Anche la formazione funziona a singhiozzo, e talvolta non funziona affatto: “Dalla sera alla mattina, alcuni dipendenti si sono ritrovati a gestire il lavoro interamente da remoto senza alcuna preparazione”. Inoltre, si denota “scarsa disponibilità di tecnologie informatiche adeguate presso le abitazioni dei lavoratori. È un aspetto sottovalutato ma di fondamentale importanza: la mancanza di dispositivi e connessioni internet affidabili e performanti pregiudicano il lavoro da remoto”.

Bisogna spingere il processo di cambiamento, che equivale a un’autentica rivoluzione culturale, dall’alto. Dall’alto vuol dire dai vertici. Da chi amministra la pubblica amministrazione. Per la Sicilia, Musumeci. D’altronde è stato firmato da poco un accordo Stato-Regione in cui Roma, tra i numerosi compiti per casa, ci impone “il recepimento della normativa statale e delle correlate direttive in materia di applicazione del lavoro agile al personale regionale e degli enti strumentali”, oltre alla “riorganizzazione e lo snellimento della struttura amministrativa della Regione”. Suggerisce anche un piano che preveda “le semplificazioni amministrative, la digitalizzazione e dematerializzazione degli atti, la riduzione della produzione e conservazione dei documenti cartacei entro il 2022”. E’ il classico treno che passa una volta sola. E’ necessario salirci a bordo.