Il governo meno peggio che c’è (un avvocato pugliese in balìa di un litigioso manipolo di stizzosi scissionisti egocentrici e di un gruppetto di ragazzini che giocano a fare gli ideologi al luna park del potere) si è trovato tra i piedi la disgrazia più grande che potesse capitare al nostro Paese: le autonomie regionali. A un Paese come il nostro, per l’appunto, ché in altri – magari, talvolta – le autonomie sono state occasioni per accelerare la marcia affrancandosi da uno statalismo accentratore, per svincolarsi da lacci e lacciuoli della burocrazia capitale, per realizzare un sogno o un desiderio (libertà, sviluppo, welfare: fate voi) di cui ai fratelli confinanti, seppur connazionali, non importava nulla, per territorio, cultura, bisogno. Qui, invece, l’autonomia è stata alibi, pretesto, grimaldello o piede di porco della famosa scuola di pensiero “a casa mia faccio come mi pare”, s’è trasformata in protervia amministrativa e burocratica, in vessazione fiscale in cambio di zero servizi, in sperpero e ruberia ben nascosti sotto l’abbaglio di quello specchietto delle allodole che è il paesello (indipendente) di Bengodi. Una zavorra antica, una zoppìa che ha trascinato il Paese a camminare a passo diverso, chi in souplesse, chi arrancando. Oggi siamo qui, in mezzo alla catastrofe del virus, con l’autonomia difesa dai suoi indispettiti custodi (nel prosaico senso di uscieri, con tutto il rispetto per la categoria), gente che probabilmente ci meritiamo (li abbiamo eletti d’altronde, qualcuno l’avrà fatto anche in buona fede, così come forse ci meritiamo il governo nazionale meno peggio che c’è), con questi presidenti/governatori, folcloristiche figurine di vicerè che fanno le bizze e giocano ai tre colori, chiudono scuole e aprono discoteche, litigano sulla portata massima dei bus e sul limite dei coperti nelle trattorie: gerarchi con l’orbace sotto il doppiopetto, macchiette scarpettiane su video fai-da-te, mezzemaniche lumbard con la calcolatrice a manovella sulla destra. Con «un tal baccano in chiesa», il sagrista Conte fa come quello di «Tosca», un avantieindrè perpetuo e confuso, a mediare tra venti video in streaming, da Bolzano a Palermo, ogni sua epifania (parla tra un po’, entro stasera, no forse domattina: un’attesa ansiogena che manco la liberazione da una stipsi) dettata proprio da questo continuo concedere e negare, abbandonarsi e resistere. Tanto sa che alla fine si leveranno ugualmente gli alti lai, in difesa dell’autonomia violata, in nome del suo (malinteso) senso: tutti ne vogliono tanta, troppa, non gli basta mai. A dispetto di tutto: delle movidas incontrollate e delle ambulanze in coda davanti ai pronto soccorso, delle sale Bingo e dei posti in rianimazione, dell’orario d’asporto delle pizze e del medico o dell’infermiere che non ci sono perché nessuno – pur avendone autonoma facoltà – li ha mai assunti.