Come fosse stato il logo del suo “polpettone” sull’universo mafioso, trasmesso giovedì 10 da La7 per quattro lunghissime ore, Giletti si è servito dell’immagine del Cretto di Burri. Con un improprio accostamento, l’opera di uno straordinario artista, la più grande del mondo en plein air, quella che come sudario ricopre e protegge le rovine di Gibellina ed eterna la memoria delle vittime del terremoto del 1968, ha fatto da fondale alle imprese di Riina, Provenzano, Brusca, Messina Denaro e del Gotha criminale siciliano.

Le immagini di un capolavoro di incomparabile magia, che trasmette bellezza e cultura, i veri antidoti alla rozza violenza mafiosa, si sono sovrapposte a quelle delle stragi, dei crimini e degli eventi che hanno segnato tragicamente la storia della nostra terra, ai volti terribili degli uomini della sopraffazione e della morte. Ingredienti del programma, com’era prevedibile e come spesso avviene, sono stati eventi incontrovertibili, verità storiche e giudiziarie acquisite e ipotesi indimostrate, costruzioni senza fondamento che servono a comporre una storia più torbida ed intricata di quanto non sia stata quella siciliana degli anni passati. Eppure, nel programma di ieri sera, non sono serviti ad attrarre l’attenzione degli spettatori, che sono stati in numero assolutamente esiguo. C’era tutto nel programma di Giletti: la mafia, i servizi segreti, la politica, gli appalti, il “papello”, l’agenda rossa, i carabinieri e i magistrati buoni e quelli cattivi e perfino gli amori di Messina Denaro.

C’era tutto ciò che è giusto ricordare, che deve essere ricordato con rispetto della verità per non banalizzarlo, separandolo da facili suggestioni e da riferimenti che sembrano avere la improbabilità del Santo Graal e risultano buoni per fumose ricostruzioni che allontanano la verità e diventano orpelli per scadenti operazioni televisive e mediatiche. Il programma, poi, era preordinato – per lo meno, così è sembrato – alla “trattativa”, a quel rapporto fra lo Stato e la mafia che, in questi giorni, è oggetto di un processo di secondo grado, dopo che il primo vaglio lo ha riconosciuto come realmente esistito e che una parte dell’antimafia militante lo vuole incontrovertibile e dichiara definitiva quella verità, prima che passi i tre gradi di giudizio.

Proprio mentre sta maturando la convinzione dei giudici di appello, il programma di Giletti ha quasi voluto indicare la linea da seguire ed affermare una conclusione che deve restare nell’immaginario collettivo, comunque si concluda il processo. A scanso di equivoci, non ho alcun elemento per negare né per sostenere che Mori e compagni, per conto dello Stato, abbiano cercato un patto scellerato con Riina o piuttosto abbiano tentato, magari con operazioni improprie, di intercettare il disegno stragista. Le responsabilità della politica, anche della mia vecchia parte politica, quelle che hanno consentito alla criminalità di estendere il proprio potere su parti dell’Isola, appartengono alla Storia. Le complicità di alcuni settori delle istituzioni con la criminalità sono giuridicamente e storicamente conclamate, sono questioni che non possono più essere messe in discussione. Ciò che invece può esserlo è la miscela di certezze e di ipotesi al servizio di una tesi, che lascia un clima ammorbato di mezze verità, proprio ciò che allontana la Sicilia dal recupero della” normalità” civile e politica, non le consente di fare in pieno i conti con il suo passato e con le ombre ancora incombenti, fa di quel passato un continuo presente, blocca o rende difficile la ricerca di una verità giudiziaria. Quella storica, naturalmente, è soggetta a continui aggiornamenti e verifiche.