Il democristiano che comanda al mio paese – magro come uno spillo – non è un sindaco, non è un deputato e cammina in piazza Sant’Antonino dritto come un fuso. Riceve i questuanti passeggiando. Non si ferma per nessun motivo. Lui decide chi diventa sindaco e chi deputato, fa su e giù ascoltando ogni supplica e non prende un solo appunto.

Ricorda tutto e non si dimentica di nessuno dei supplici il democristiano che comanda al mio paese. Incede a passo lesto. A fargli largo c’è la gente, i miei paesani, mentre gli avversari politici – i comunisti e i missini della fiamma tricolore – fermi davanti alle vetrate delle proprie sezioni di partito osservano la presa di possesso di Agira, in Sicilia.

I sovversivi e le teste calde fanno la conta di quanti tra loro, cedendo al bisogno, scappano alle mattane di pensarla liberamente. Sono quelli che aspettano al varco quello – secco come uno stecco di agave – per fare atto di presenza, di sottomissione e, insomma, per chiedere un posto di lavoro, un avvicinamento, uno stipendio.

Il democristiano che comanda al mio paese cammina e c’è sempre qualcuno a farsi avanti a braccetto della propria moglie per stargli accanto e parlargli. Ce n’è uno, poi, che accompagnato dal suocero – col berretto stretto in pugno, col vassoio delle cassatelle appena sfornate – a riprova di avere messo la testa a posto offre se stesso, lo stato di famiglia, i parenti e il vicinato: tutta contabilità a disposizione delle singole preferenze e dei voti di lista.

Il maresciallo dei Carabinieri in piedi all’angolo del Bar Cardillo veglia sulla domenica pomeriggio accennando un colpo di tacchi quando il democristiano che comanda al mio paese guarda nella sua direzione come a informarsi: “Sta arrivando?”.

Sta venendo il Vescovo. E sta per fare il suo discorso in piazza il signor Ministro. Sua Eccellenza il Vescovo non si ferma in piazza, scende dall’automobile, raccoglie i baci sull’anello degli astanti ed entra in una casa da dove, al riparo delle cassine, può ascoltare non visto le note di “oh biancofiore, simbol d’amore” e poi il “vota e fai votare!”.

Il maresciallo dei Carabinieri con una sola occhiata dispone due militi ma anche le guardie municipali sul ciglio della strada per fare ala alla Fiat 131 in arrivo. Ecco finalmente il sig. Ministro. Il democristiano che comanda al mio paese gli dà del tu: “Totò, carissimo”.

Dalla porta della canonica escono le pie donne, con loro i bambini e i ragazzi del catechismo – quindi le mamme – e poi i soci della Società Agricola. Sono, questi, perlopiù dei signori in avanti con l’età. Si portano fuori dai locali del loro circolo le sedie e le dispongono intorno per godersi, comodi, il comizio. Ma ci sono le signore e perciò cedono loro il posto mentre l’umanità della Prima Repubblica – il suo granaio di consenso – sciama intorno al mondo piccolo del mio paese dove c’è un democristiano che comanda e che si muove con sapienza. E con misericordia.

Parlo di Agira, ma potrei parlare di Valguarnera Caropepe, di Canicattì o di Mussomeli – la patria di Totò Cardinale – e di qualunque altro posto genericamente indicato tra quelli dove Cristo ebbe a perdere le scarpe. Giuseppuzzo Alberto Falci, straordinario cronista parlamentare, in dialogo con Cardinale – ministro delle Telecomunicazioni nei Governi D’Alema e Amato – ne ha ricavato per Rubbettino un libro che è una sceneggiatura: Un giovane della Prima Repubblica. Un giovanotto dell’eterno immobile sentimento democristiano e siciliano: il potere.