L’ultima acrobazia di Schifani è arrivata coi parlamentari orfani di Cuffaro. Dopo aver sentenziato che “alla Dc vengono contestati reati di un ‘sistema partito’ nei confronti dei cui vertici è stato richiesto l’arresto a causa della gravità degli elementi di accusa raccolti”, e aver revocato i due assessori in giunta (Albano e Messina), il presidente della Regione ha incontrato i sei parlamentari democristiani – ma non erano anche loro degli appestati? – e ha ottenuto che ribadissero la fiducia al governo pur essendo stati spogliati di qualsiasi rappresentanza. Il “sistema partito” per i deputati semplici non vale e per Schifani, evidentemente, non c’è il rischio che il cancro possa aver determinato metastasi così profonde da umiliare gli assetti della maggioranza. Lo stesso ragionamento vale per il sottogoverno: dovesse licenziare tutti gli esponenti della nuova Dc – a partire da Mauro Pantò, presiodente della Sas – sarebbe la fine. E quindi, acqua in bocca e avanti il prossimo.
Anche nei confronti di Fratelli d’Italia il comportamento di Schifani, nel tempo, si è dimostrato ambivalente. Già nei rapporti con l’ex assessore Manlio Messina: prima temerario oppositore, con la storiaccia di Cannes e il ritiro in autotutela del provvedimento con cui l’allievo Scarpinato offriva su un piatto d’argento alla Absolute Blue un affidamento diretto senza bando; poi improvvisamente docile, col bacio della pantofola di Brucoli, quando riferendosi al Balilla lo encomiò come consigliere privilegiato sulle politiche del Turismo. Oggi, evidentemente, non è più così; se potesse, l’ex patriota rimpiazzerebbe il governatore con l’intelligenza artificiale e semmai avesse l’ardire di ricandidarsi, lui sarà pronto a contrastarlo.
Anche con gli altri Fratelli di Sicilia il rapporto non è sempre stato idilliaco. Schifani arrivò al punto di chiedere a Marcello Caruso, in qualità di coordinatore del suo partito, di escludere Galvagno dai vertici di maggioranza: troppe macchie sulla carriera del 40enne presidente dell’Ars a seguito dell’inchiesta per corruzione e peculato della Procura di Palermo. Poi, sarebbe arrivato a contestarlo aspramente, come rivelato da più fonti, per la conduzione dell’aula durante il giovedì nero all’Ars, con la manovrina fatta a pezzi dai franchi tiratori. Salvo, il giorno dopo, suggerire un’altra lettura: “Mai cambiato il mio rapporto col presidente dell’Assemblea Galvagno, al quale mi lega una profonda stima, amicizia e rispetto politico e istituzionale”.
Eppure la partita con FdI si gioca sul filo della tensione. I rapporti solidissimi paventati qualche giorno fa al Molo Trapezoidale di Palermo, in occasione dei festeggiamenti per i tre anni del governo Meloni (specie nei confronti di Sbardella) non risultano agli atti: era stato il gruppo parlamentare meloniano a mettere in mora il governo col voto segreto e restando in aula beffandosi delle indicazioni del presidente. Gli assessori di FdI arrivarono a disertare una giunta per lo stesso, identico motivo – la revoca di Salvatore Iacolino al Dipartimento di Pianificazione strategica – e ottennero una promessa di mutuo soccorso: Iacolino salterà.
“Qui mi sento a casa”, ha spiegato Schifani domenica. Peraltro di fronte a Musumeci, acerrimo rivale, che non perde occasione di ribadire la distanza tra i due governi: “Dobbiamo essere vigili, soprattutto su quelli che stanno accanto a noi, a un palmo di distanza”, ha detto il Ministro della Protezione civile, lamentando le tante ipocrisie sul caso Cuffaro e il sistema clientelare e il consociativismo parlamentare su cui si fonda la Regione siciliana. Accogliente a chi?
A proposito di FdI. La richiesta di rinvio a giudizio dell’assessore Amata dovrebbe imporre una presa di posizione com’è accaduto coi due poveri assessori della Dc (senza macchia). Invece, nada. Schifani reclama a gran voce la moralizzazione del suo governo, ma non osa recidere i fili con la corrente turistica e col presidente del Senato La Russa, che non gli perdonerebbero una deriva “giustizialista” in casa loro. Da qui l’invito del M5s: “Applichi con Fratelli d’Italia lo stesso metro usato per gli assessori della Democrazia Cristiana, oppure deve chiedere prima il permesso a Roma? Schifani deve dare un segnale forte alla collettività, estrometta gli assessori di FdI e un minuto dopo si dimetta, non ci sono più le condizioni per andare avanti”.
Persino con Cateno De Luca – al netto dei complimenti di routine (“E’ un amministratore che sa di conti”) – non si capisce quale sia la “linea”. Il leader di Sud chiama Nord sembrava sul punto di accettare l’offerta di entrare in giunta, ma Schifani nega (“Non mi ha dato segnali di questo tipo”). E ancora: un giorno consegna l’avviso di sfratto a Di Mauro – ex assessore autonomista – per “lo show di m…” fatto in giunta, quello dopo concede al Mpa i vertici dell’Ast.
Ma soprattutto, prendete i rapporti con Cuffaro: ieri l’alleato più fedele, oggi il reietto da scaricare a tutti i costi. Per salvare la faccia di un governo che non l’ha mai avuta. Per tenere in piedi una legislatura dove l’unico modo per sopravvivere è avventurarsi nella giungla, spartire le mance, resistere ai franchi tiratori e definire la lista dei capri espiatori. C’è sempre un nemico da combattere e da abbattere. Altrimenti che senso avrebbe questa splendida esperienza chiamata governo?


