E’ stato un vero privilegio potere immergersi nel materiale verbale di quel romanzo visionario, ma profondamente reale, che è Il Lupo e la Luna di Pietrangelo Buttafuoco, per tentarne un cunto per voce sola in un introibo e undici quadri.

Il vantaggio è dettato dal fatto che la scrittura di Buttafuoco è carnalmente poetica e sublime ad un tempo, visionaria e reale, storicizzata, ma presente, elaborata e piana nell’unisono di una articolata melopea ben piantata su una concezione islamica sacra della vita come un eterno ritorno nelle braccia del Maestoso e Potente Allah.

Ne deriva che la parola detta, letta, ascoltata è una pura e continua rivelazione, fatta di amori perduti e ritrovati, di inganni e verità svelate, di oscurità e luce ricercata. E tutto questo avviene nel mistero infinito del Significato, che in un luogo magico come il palladiano Teatro Olimpico di Vicenza acquista in maniera esponenziale la cifra di una funzione magica, di una celebrazione dello spirito, volto sì a narrare, ma teso anche e soprattutto e rivelare.

Il lavoro di traduzione per la scena, che ha implicato in sé un adattamento del testo e una regia, ha riguardato soprattutto la forma. Abbiamo voluto, partendo dalla pagina del romanzo di Scipione Cicalazadè e del suo essere Lupo in cerca della sua Luna, ricostruire il ritmo di un’esposizione pubblica rimontando la forma del romanzo. Non più una prosa lineare che serviva la lettura interiore, ma una struttura poetica che fosse funzionale al giuoco dell’improvvisazione rapsodica.

A fare da sfondo, oltre alla naturale ed intonsa skené del Palladio, le magnifiche visioni in immagine di Francesco Lopergolo, che hanno aiutato il viaggio nel mondo medio rinascimentale dell’Impero Ottomano e della sicula Ispania di Donna Lucrezia e i suoi figli rimasti a difesa dei Cristiani e del Rinnegato Scipione Cicalazadè, figlio anch’egli, ma rapito e rigenerato nelle spire dell’Islam.

Buttafuoco è stato un magnifico interprete della sua parola al modo e al suono dell’ancestrale cunto mediterraneo. Un ràpsodo moderno e contemporaneo capace, più di qualsiasi altro possibile interprete che avesse dovuto far sua una materia di creazione altrui, di scovare negli antri più celati del tessuto verbale il senso molteplice del senso e della forza delle parole. E lo ha fatto non risparmiando a sé alcuna fatica, senza infingimenti da Ypocrites, ma con la forza della verità che quelle parole ritrovavano nel momento della sua narrazione al cospetto del foltissimo pubblico che riempiva, malgrado il Covid, gli spalti della cavea palladiana. In uno, egli era medium tra il sé autore e il sé narratore, tra l’essere e il rivelare, tra l’origine del Bedeutung  e la sua Gestalt.

E la forma, in virtù di questa naturale bravura di Buttafuoco, ha permesso di lasciarsi avvolgere da un sapore antico del Teatro, lontano dalle tecniche artificiose della narrazione teatrale contemporanea, ma sincero e quasi riportato al modulo del cunto per suo naturale, e non ricercato, effetto di passaggio dalla parola detta a quella ascoltata.

La serata all’Olimpico, merito anche di un’attenta direzione artistica della rassegna di Giancarlo Marinelli e del suo staff, ha reso giustizia in un momento come questo al teatro nella sua originaria funzione: quella di una festa sacra, dove un novello Tespi, con i suoi attrezzi e le sue maschere, qui assimilate nell’esaltante groviglio della materia verbale, ha intonato il suo ditirambo, fattosi per l’occasione cunto di scena e canto in lingua Farsi suggerito dai suoni dei Pallett, fattosi richiamo alla preghiera dell’Alcorano, fattosi voce sola che declinava in un introibo e undici quadri il suo pannello istoriato dell’ incredibile vicenda, ma vera, di Cicalazadè pascià, capitan del mare, crudelissimo rinnegato.