La critica può dire “cinepanettone”, “usato sicuro”, “minestra riscaldata”. I giornali — ammesso che ci sia ancora qualcuno che li legga — possono dividersi: ne apri uno e trovi scritto “record”, ne apri un altro e trovi la parola “flop”. Può capitare che una parte della sinistra legga Zalone come una “strizzata d’occhio agli anti-woke”. Può capitare che la destra lo trasformi in bandiera contro i “salottini rossi”.
Ma la ragione per cui gli italiani lo amano è più disarmante, e più triste: Zalone ci piace perché ci somiglia.
Non nella parte migliore. Nella parte che non postiamo. Nella parte che, per un’ora e mezza, finalmente non dobbiamo difendere.
E alla fine, sul Cammino — quello spagnolo del film e quello italiano di questi giorni — non conta chi ha ragione. Conta chi riesce a far camminare insieme persone che fuori dalla sala non si parlano più. Ecco il vero record: non solo al botteghino. Nel buio. Nella risata. Nella tregua.
Detto questo, 14 milioni in due giorni non li fai perché “piaci alla destra” o “non piaci alla sinistra”. Li fai perché, per quarantott’ore, diventi un servizio pubblico.
Zalone ha capito una cosa semplice: l’italiano — di destra e di sinistra — ha due vergogne.
La vergogna culturale: il timore di non essere all’altezza. Quella sensazione da Paese dietro un banco, dove c’è sempre qualcuno che ti spiega come parlare, cosa guardare, su cosa ridere, su cosa indignarti. Non è solo snobismo: è un clima. È l’ansia di sbagliare la parola, la battuta, il giudizio.
E poi c’è la vergogna morale: il timore di essere “cattivo”. Perché l’italiano non si sente un cinico, si sente un buono stanco. Ma dentro ha pensieri brutti: invidia, rancore sociale, pregiudizi da sopravvivenza. Non li rivendica. Li nasconde.
Checco entra esattamente lì: in quella zona dove la gente non vuole essere giustificata, vuole essere assolta senza processo.
Il trucco è semplicissimo: la colpa la porta lui in scena. Lui fa l’ignorante, lui fa il cafone, lui dice quello che “non si dovrebbe dire”. Tu ridi e, ridendo, ti liberi per un’ora dal tribunale interiore.
Questa è forse la prima cosa che ho capito vedendo Buen Camino: Zalone non vende comicità, vende depenalizzazione. Non è una bandiera. È un campo neutro.
Un luogo raro dove si entra senza dichiarazione ISEE, senza dichiarazione ideologica, senza dover dimostrare di stare “dalla parte giusta”. C’è un popolo intero che si mette in coda non per un film, ma per un permesso. Il permesso di ridere. Anche male. Anche di cose che “non si dovrebbero”. Senza il terrore di essere giudicati da qualcuno che, intanto, giudica tutto.
Zalone piace per questo: perché è una specie di assicurazione sulla colpa. Tu entri in sala con i tuoi peccati veniali e lui ti dice: tranquillo, ci penso io. Mi sporco io. E tu, nel buio, prima ti diverti e poi ti assolvi.
In Buen Camino lo schema è dichiarato: Checco è ricco, pacchiano, esagerato, vive nella caricatura del privilegio. L’armamentario da cafone di lusso e il campionario di luoghi comuni sono confezionati ad arte per non far sentire solo il pubblico. Perché siamo un Paese che si divide su tutto — Nord e Sud, garantiti e precari — ma si riconosce in una cosa sola: l’arte di arrangiarsi con la faccia seria.
Zalone quella faccia seria te la rompe.
Lo fa anche quando il film è sottotono. Anche quando una parte della critica lo boccia perché “manca lo spirito provocatorio” o perché prende di mira le élite invece dei mostri quotidiani.
La verità è che agli italiani interessa relativamente se Zalone è al massimo della forma. Interessa che sia riconoscibile. Che torni. Che faccia il suo mestiere: mettere in scena l’Italia che non ammettiamo di essere.
E poi c’è la questione che fa più rumore: “piace alla destra, non alla sinistra”. Una semplificazione comoda per trasformare una commedia in un referendum morale. Da una parte la destra mediatica lo usa come clava: “sale piene”, “critica impegnata sconfitta”, “i radical chic rosicano”. Dall’altra, una parte della sinistra legge nelle battute anti-woke e nella parabola del cammino una morale esplicita, cristiano-cattolica, una ricomposizione tradizionale dei valori. In mezzo, il film. E la sala.
Ma davvero l’Italia va al cinema per dare ragione a qualcuno? No. Ci va per una ragione più antica e più semplice: Zalone prende in giro tutti senza chiedere la tessera.
Il suo “politicamente scorretto” è una parola-valigia. Dentro c’è di tutto: l’irriverenza intelligente e la battuta buttata lì, la satira e l’effetto karaoke, il coraggio e la furbizia. È questa ambiguità che fa impazzire i commentatori: Zalone è bipartisan per struttura, non per ideologia. Non ti dice come votare. Ti dice come sei, quando non reciti.
Nei suoi film c’è sempre un’ossessione: il lavoro, il posto fisso, i soldi, il riscatto, l’ostentazione. Il ricco cafone non è solo un personaggio: è un sogno sporco. “Se divento ricco, mi vendico”. E la vendetta, qui, non è contro i ricchi, ma contro chi ti ha fatto sentire piccolo.
Zalone ti fa ridere perché ti restituisce una dignità paradossale: non sei tu che non capisci, sono loro che se la tirano.
Le battute su Gaza, sui Lager, sull’11 settembre sono diventate il simbolo di questa stagione. C’è chi le considera intollerabili, chi le difende come libertà comica, chi le giudica semplicemente “messe lì”. Ma al netto della singola battuta, il film fa un esperimento: portare il proibito nel salotto buio del cinema e vedere cosa succede. Succede che il pubblico ride — o non ride — ma intanto si sente parte di qualcosa. E in un Paese sfilacciato, la parte collettiva vale più della battuta.

Il viaggio, il cammino, è una struttura perfetta: parti egoista e arrivi umano. È un catechismo laico: peccato, prova, caduta, risalita. A qualcuno dà fastidio. A molti consola. Perché l’Italia è un Paese che si critica di giorno e la sera cerca un abbraccio narrativo: “sì, siamo così… però possiamo migliorare”.
Il confronto con Avatar aiuta a capire il fenomeno. Avatar è lo spettacolo globale: tecnologia, immersione, mondo altro. Zalone è lo spettacolo nazionale: linguaggio, tic, piccoli inferni domestici. Quando si dice che Zalone “supera Avatar” in due giorni, non si sta dicendo che è più forte artisticamente. Si sta dicendo che oggi l’italiano preferisce riconoscersi piuttosto che evadere. Perché l’evasione vera richiede energia. E molti, di energia, ne hanno poca.
Zalone offre un’evasione meno costosa: l’evasione per identificazione. Non vai su Pandora. Vai in Italia. Ma la guardi da fuori, ridendoci sopra. E questo basta a spostare l’umore.
Forse la verità è che l’Italia non ha voglia di ridere perché è felice. Ha voglia di ridere perché è esausta. Il successo di Buen Camino è anche un dato sociologico sul rapporto con la sala: quando c’è l’evento, il pubblico torna. E torna in massa.
Ma l’evento non è solo “Zalone nuovo film”. È Zalone come appuntamento nazionale: il momento in cui ti senti autorizzato a dire “stasera niente dibattiti, niente ansie, niente prestazioni”.
Il suo record non misura la risata. Misura la domanda di sospensione.
E attenzione: Checco Zalone non è un alieno. L’alieno è chi arriva con una morale superiore, con un genio che sta sopra la società. Zalone sta dentro. E lo capisci da una cosa semplice: non ti chiede mai di essere migliore. Ti chiede di essere sincero.
È una figura che in Italia mancava: il mediatore di vergogna. Uno che prende la guerra culturale e la abbassa di due ottave, fino a farla diventare una scena da tavola di Natale: “ridiamoci, poi domani litighiamo”.
E sì, è anche uno che mette insieme italiani che fuori dal cinema non si guardano. Non perché li riconcili davvero — non esageriamo — ma perché offre una tregua praticabile: non un’idea comune, ma un gesto comune. Ridere nello stesso momento.
Per qualche giorno, l’Italia sceglie di condividere la stessa stanza buia e la stessa grammatica. Zalone è un rito laico di ricomposizione. Non ricompone le idee. Ricompone il gruppo.
E in un Paese che si parla addosso senza più ascoltarsi, ricomporre il gruppo — anche solo per una sera — vale molto più di 14 milioni di euro.


