Il partito della penombra

Davide Faraone siede fra i banchi del Senato a Palazzo Madama. Ma è anche il segretario regionale del Pd

Dal 4 marzo – giorno dell’elezione di Nicola Zingaretti alla segreteria nazionale – al 26 maggio non c’è stato molto tempo per dare al partito un nuovo imprinting. Ma le Elezioni Europee, e la crescita del consenso, sono sicuramente un buon segnale per il nuovo Pd, che in Italia, come in Sicilia, può tornare a contare qualcosa, garantendosi il ruolo di “alternativa” ai movimenti di governo. Approfittando della lacerazione grillina e del malessere di Forza Italia.

Le regole che valgono in Italia, però, in Sicilia valgono solo in parte. La situazione è diversa, chi comanda pure. Eppure, anche in Sicilia come altrove, il Pd ha riguadagnato terreno. A parte qualche delusione cocente come a Lampedusa (dove alle politiche d’inclusione di Bartolo, hanno preferito i #portichiusi di Salvini), i “dem” hanno recuperato oltre cinque punti rispetto alle Politiche di un anno fa. Ma erano reduci dal governo Crocetta e da una batosta memorabile alle Regionali. Tutto questo per dire che fare peggio, francamente, era impossibile. Il segretario regionale del partito, Davide Faraone, ha parlato di “una crescita più alta della media nazionale”. E aggiunto un elemento che merita di essere attentamente esplorato: “Siamo molto preoccupati dal dato della Lega – ha detto Faraone -. Adesso occorre sbracciarsi affinché il Pd si organizzi nei territori, con un radicamento vero e rinnovato, e lavorare per costruire una casa più grande con tutti quei moderati che nel centrodestra, da ieri, non l’hanno più e con tutti quelli che avevano creduto nel bluff del cambiamento targato 5 Stelle”.

Faraone, nella sua analisi post-voto, non ha smesso di evidenziare il profundis grillino, ma anche la cannibalizzazione di Forza Italia operata da Salvini e Meloni, fianco a fianco. Non gli sarà sfuggito neppure che FI, in Sicilia, resiste al 17%, pur con la complicità della galassia centrista – da Lombardo a Romano, da Cuffaro a De Luca – che hanno finito per rafforzare il ruolo del coordinatore regionale del partito, Gianfranco Micciché. Al momento è quella, Forza Italia, la casa dei moderati. Degli ex democristiani. Dei reduci del renzismo, come gli uomini di Totò Cardinale che dal Pd se la sono data a gambe (non appena eletto Zingaretti). La sorpresa, ma neanche tanto, di questa competizione elettorale, è che Forza Italia e il Pd, in Sicilia, mettono insieme il 33,5% dell’elettorato, più del Movimento 5 Stelle e dell’asse sovranista. Non significa nulla, allo stato attuale: sia Miccichè che Faraone non sono intenzionati a muoversi e allearsi. E, nel caso di Faraone, risulterebbe persino più complicato: la segreteria nazionale – in primis il vice segretario Andrea Orlando – non ha benedetto gli accordi locali di Gela (con Forza Italia), Bagheria e dintorni, dove il “Pd civico” si è alleato (anche) con liste di centrodestra. Non è nella cultura di Zingaretti. Ma in Sicilia vale tutto. E il Pd ha un bisogno disperato di tornare a radicarsi.

Lo ha detto Faraone e l’ha ammesso anche Antonello Cracolici, suggerendo una spinta uguale e contraria rispetto a quella del segretario: “C’è un partito da ricostruire partendo dal basso, perché è sparito il suo radicamento nel territorio. Faremmo un grave errore illudendoci che questo risultato abbia risolto tutti i nostri problemi. Non dobbiamo commettere l’errore di infilare la testa sotto la sabbia”. E’ una questione di testa e (forse) anche di teste. Faraone nel corso della campagna elettorale si è coperto. Si è comportato da segretario, ha elogiato il valore di una lista “aperta verso l’esterno”, esaltato quello dei candidati, con particolare riferimento alla missione umanitaria di Bartolo, all’efficienza parlamentare di Chinnici e Giuffrida, all’estratto di società civile, dal sapore più che godibile, rappresentato dai sindaci (Ciaccio e Licciardi, entrambi bocciati nelle urne). E ha partecipato, come doveroso che fosse, alle manifestazioni con Zingaretti: già durante l’incontro pre-elettorale di Castelvetrano e poi in piazza a Catania, nel giorno in cui altrove, a Palermo, andava in scena la patetica ridda per la presenza (o meno) all’evento dell’aula bunker in memoria di Falcone.

Durante questa campagna elettorale, il Pd ha sospeso la faida – ci sono ancora dei ricorsi pendenti dopo il caos del congresso regionale – e placato gli appetiti, mantenendo una compostezza quasi esemplare. Ognuno tifando il proprio candidato. Ma non un tifo smodato, da ultrà. Ma condito dal rispetto che si deve ai “compagni”. Bartolo è quello che ha usufruito in modo maggiore – ma c’era da aspettarselo – di un sostegno trasversale, per ciò che era e ciò che rappresenta: alla sua causa si sono uniti alcuni insospettabili, come Claudio Fava (“L’elezione di Bartolo è una sfida che va raccolta e rilanciata”), e dei cavalli di ritorno, come il sindaco di Palermo Leoluca Orlando. La partita vera si è disputata lungo due direttrici, attorno alle candidature di Caterina Chinnici, la “papessa straniera” appoggiata dai renziani, che non vanta buonissimi uffici con alcuni dirigenti locali; e dal ticket di ispirazione zingarettiana, composto da Giuffrida e Licciardi. A uscirne trionfalmente è stato un vecchio leone come Mirello Crisafulli: il 18,89% ottenuto in provincia di Enna (in città addirittura il 22,3%) porta il suo zampino, ma è pur vero che il sindaco Maurizio Dipietro, renziano doc e avverso a Crisafulli, il suo l’ha fatto pure. E anche Nello Dipasquale rivendica per sé l’ottimo risultato di Ragusa (20% in provincia, 25% in città dove ha fatto il sindaco per anni).

Colti i segnali (e gli esempi) positivi, e senza abbandonare la speranza, ora è il momento della chiarezza. Nel metodo – Faraone ha lanciato un salvagente ai moderati, è già un segnale – e negli uomini. Bisognerà capire se, chi ha fatto la guerra al segretario regionale in passato (come Lupo e Cracolici), abbia ancora voglia di far saltare il banco. Quanto conterà la voglia di rinnovamento di alcune nuove leve come Sammartino, che a Catania s’è intestato l’elezione della Chinnici. E se il “paparino” Zingaretti (cit.) voglia riaprire la partita del segretario. In caso contrario, per il bene del Pd, servirà una legittimazione che Faraone non ha mai ottenuto del tutto, dato che la Piccione s’è ritirata dal congresso e la proclamazione dell’ex sottosegretario, renziano anch’egli, è risultata un referendum tra pochi eletti (i suoi) all’assemblea. Insomma, bisognerà capire la rotta di un partito che pure all’Ars, stante gli undici deputati espressi, fin qui fa prove di contorsionismo, ma è tagliato fuori dalle decisioni che contano. Non serve, non ancora, a Musumeci per sopravvivere, non basta ai Cinque Stelle per ribaltarlo. Al Pd non resta che scegliere cosa fare da grande.

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