E’ tornato d’attualità il rimpasto, anche perché all’antivigilia di Natale non c’è traccia di riforme. Quella sull’edilizia avrebbe dovuto discutersi ieri, ma è stata rinviata al tempo della quiete (marzo?), e comunque al termine della sessione di Bilancio che terrà impegnata l’Ars per un po’ di settimane (si parte oggi con le variazioni, si prosegue la settimana prossima con l’esercizio provvisorio). Ma nel frattempo la politica si riorganizza. Prima della fine di dicembre, Musumeci dovrebbe ufficializzare il “riassetto” della giunta. E’ così che l’ha chiamato il governatore, che l’estate scorsa aveva preannunciato un ritocco al motore, mai effettuato, e oggi, sulla scia della mozione di censura (sventata) a Ruggero Razza – su cui il centrodestra ha fatto quadrato – non ha più potuto contenere gli istinti primordiali di Forza Italia. Il partito di maggioranza relativa della coalizione vuole garantire rappresentatività a tutti i territori. Nel giro di una settimana, finalmente, dovrebbe riuscirci.

Guai, però, a chiamarlo rimpasto. Da quel termine, che secondo il vicegovernatore Gaetano Armao appartiene alla “peggiore politica”, tutti rifuggono. Lo stesso Micciché ha spiegato che i rimpasti si fanno quando all’interno della maggioranza ci sono dei problemi, e non è questo il caso secondo il commissario azzurro. Mentre Musumeci è molto cauto ad allargare i discorsi a deleghe e partiti, perché rischia di non venirne fuori. Non ha mai tollerato l’idea che qualcuno potesse scombinare la composizione del suo governo, che nei mesi si è trasformato in un “partito del presidente” (povero di idee e avaro di iniziative). E ancora oggi, per dimostrare la sua fermezza, cita le differenze con Crocetta, reo di aver cambiato una sessantina di assessori in tutto. Lui no: è rimasto serio nei numeri e rigoroso nella forma. Tra i pochi addii quelli di Vittorio Sgarbi (sostituito dal compianto Sebastiano Tusa), Mariella Ippolito (dentro Scavone) e Sandro Pappalardo (al suo posto Messina). Mai uno strappo. Le apparenze sono salve.

Anche se questo indicatore non basta a salvare il lavoro dei primi tre anni, in cui il governo, al netto della pandemia, ha proceduto a fari spenti. Qualcosa andava cambiata prima, forse. Ora rischia di essere troppo tardi, ma tant’è. I diktat di Berlusconi e Musumeci hanno impedito a Micciché di sostituire Armao (tuttora in quota Forza Italia), costringendolo a ricostituire un buon rapporto di vicinato. Così si potranno concretizzare soltanto dei movimenti minori, quasi obbligati. Salutano – attenendosi scrupolosamente ai diktat di partito – l’assessore all’Agricoltura e alla Pesca mediterranea Edy Bandiera, di Siracusa; e quello alla Funzione pubblica e alle Autonomie locali, Bernadette Grasso (di Messina).

Il turnover, che adesso anche Musumeci ha definito “fisiologico”, procede a rilento per un motivo chiaro: in giunta c’è bisogno di una donna. Fin qui ce n’è una sola, la Grasso, e il presidente pretende di conservare la “quota rosa”. Pertanto sono in caduta libera le quotazioni dei forzisti agrigentini, da Gallo Afflitto a Giambrone (ma anche il nisseno Mancuso potrebbe essere tagliato fuori). Tutti i calcoli portano a Maria Antonietta Testone, coordinatrice regionale di Azzurro Donna, il gruppo femminile di Forza Italia. Sullo sfondo Margherita La Rocca Ruvolo, che però è appena uscita dall’Udc, e si è già imbattuta in un veto da parte degli ex colleghi, che del suo addio e del contestuale approdo a FI si sono lamentati pubblicamente.

L’altro pretendente, al posto di Bandiera, è l’ex deputato trapanese Toni Scilla, che ha partecipato al comitato d’accoglienza dei pescatori reduci dalla Libia, e che al porto di Mazara qualcuno già chiamava “assessore”. Prenderà l’Agricoltura. Spegnendo sul nascere la volontà della Lega di essere della partita. Il deputato nazionale Nino Minardo, ma anche il capogruppo all’Ars Antonio Catalfamo, avevano spiegato che in caso di “rimpasto” il Carroccio desiderava essere coinvolto, dato che in primavera, in piena pandemia, fu costretto ad accettare l’unico posto libero: i Beni culturali (da lì il malumore mai sopito di Orazio Ragusa). Accontentare tutti, però, rischierebbe di avere un effetto domino. Ecco perché è vietato parlare di “rimpasto”.

Più defilata, invece, la posizione degli Autonomisti, che nelle scorse settimane avevano fatto sapere di essere interessati a una nuova delega – l’Agricoltura, per l’appunto – ma adesso sono costretti a un passo indietro, in nome e per rispetto della nuova federazione col Carroccio, ma anche perché la questione sostanzialmente è chiusa. Dovranno accontentarsi di un paio di rinforzi in Assemblea: potrebbero arrivare Totò Lentini e Luigi Genovese da Ora Sicilia, la stampella di Diventerà Bellissima che di fatti ha smesso di esistere – è attesa l’ufficializzazione del Consiglio di presidenza – dopo l’addio di Daniela Ternullo (approdata in Forza Italia). Mentre gli ex grillini di Attiva Sicilia, il gruppo di cui Ruggero Razza è il creatore occulto, non ha avanzato pretese, e continuerà a vacillare fra posizioni compatibili col governo e il ruolo d’opposizione.

E’ un turnover destinato a lasciare pochi strascichi, tranne i soliti malumori. E che servirà non tanto a rilanciare l’azione amministrative – il giudizio di parifica della Corte dei Conti, previsto per il 29 gennaio, ritarderà l’operatività degli assessorati – ma a definire che si arriva in fondo con la stessa formazione iniziale. Diciotto mesi di percorso netto prima della resa dei conti, in cui i partiti saranno obbligati a gettare la maschera. E in cui il destino di Musumeci è ancora tutto da scrivere.