C’è una legge non scritta delle democrazie di tutto il mondo che prevede che in corso di navigazione i consensi percepiti e fotografati dai sondaggi calino. Una legge non scritta che ha i suoi corollari nelle elezioni amministrative e locali che si svolgono a legislatura in corso. Prendiamo il caso di Donald Trump, assai preoccupato dalle elezioni di mid term dell’anno prossimo, gli indici di gradimento che presentano una costante curva verso il basso. Per non parlare di Keir Starmer, una brevissima luna di miele e poi pasticci e crollo a picco nelle rilevazioni, se si votasse domani i laburisti otterrebbero il bottino più magro degli ultimi decenni. O della Germania, dove i socialisti sono stati prosciugati dagli anni di governo di Olaf Scholz, e ai popolari non va molto meglio ora che il cancelliere è uno dei loro, Friedrich Merz.

C’è una legge non scritta, e poi c’è la più classica delle eccezioni che conferma la regola. Un’eccezione che si chiama Giorgia Meloni. È chiaro che i sondaggi valgono il giusto, la sapienza del metodo dei più grandi istituti di ricerca deve fare i conti sull’affidabilità di chi risponde alle domande, sono tentativi di fotografare dall’alto bucando la nebbia dell’ignoto. Ma sono altresì utili a rilevare il sentiment degli elettori, tendenze e orientamenti del dibattito politico. E da questo punto di vista Meloni è una sorta di unicum tra le grandi democrazie occidentali.

È un fatto raccontato di settimana in settimana dalla supermedia Youtrend. È, come dice il nome, la media di tutte le rilevazioni eseguite nel tempo. Il grafico che l’agenzia offre sul suo sito è abbastanza impressionante. Fratelli d’Italia, il partito di cui la premier è leader, da dopo le elezioni del 2022 – chiuse con un pur ottimo 26% – si è stabilizzato tra un minimo del 27,2% e un massimo del 30,6%. Una forchetta che non racconta nessuna stanchezza dell’elettorato nei confronti di Meloni e dei suoi, nessun logoramento del consenso, ma anzi il consolidamento di una base elettorale che sfiora un terzo di coloro che si recano a votare, una dinamica che, su cifre sia pur diverse, interessa anche i partiti alleati (sia Lega sia Forza Italia si attestano da tre anni con lievissime oscillazioni tra l’8% e il 9%).

Mentre alla Camera dei deputati le opposizioni si sgolano per bollare la legge di bilancio come un provvedimento austero, sbagliato, che non risponde alle preoccupazioni degli italiani (copyright Elly Schlein, il sondaggio di fine anno dell’autorevole Nando Pagnoncelli pubblicato dal Corriere della Sera certifica che nonostante i tre anni di governo Fratelli d’Italia e i partiti di governo si confermano a percentuali anche superiori a quelle incassate alle urne nel 2022, e solo nel caso della Lega lievemente inferiori (l’8,1% rispetto all’8,8%).

Di recente Matteo Renzi ha segnalato “scricchiolii” nel centrodestra, e come non prestare attenzione alle parole di uno dei grandi maestri delle alchimie di Palazzo. E lo stesso governo non è stato immune da inciampi e scivoloni. Una ministra, Daniela Santanchè, indagata, un sottosegretario, Andrea Delmastro, coinvolto in una storia di pistolettate, una storia d’appendice a costringere alle dimissioni il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, le gaffes del collega Francesco Lollobrigida. E poi un’economia che nonostante il Pnrr non brilla, le crisi industriali come quelle dell’Ilva, le promesse non mantenute sul blocco dei porti, sulle pensioni, sull’abolizione delle accise.

Il suo è un governare a vista. Solletica un po’ l’elettorato con interventi sempre un filo sopra le righe e rabbiosi il giusto contro gli avversari (vedi intervento di chiusura di Atreju) e solletica la base più identitaria con provvedimenti a costo zero (natalità surrogata). Ma soprattutto non ha assecondato chi all’alba del suo insediamento a Palazzo Chigi prevedeva una destra rutilante che avrebbe cercato di sfasciare l’Europa. Si giova dei fondi europei del Pnrr costruito dall’inviso Giuseppe Conte, triangola diplomaticamente con le cancellerie del Vecchio continente e con Bruxelles, rispetta le consegne finanziarie e internazionali. Anche sull’Ucraina, nonostante l’evidente raffreddamento degli ultimi mesi e un progressivo scivolamento sulla linea di Donald Trump, ha arginato senza colpo ferire gli afflati filo-Mosca degli alleati salviniani.

Ed è anche questo suo procedere senza condurre il paese sulle montagne russe alle quali ci aveva abituato il precedente governo populista, lo strano ircocervo M5s-Lega, un architrave di questa resilienza nei numeri del consenso.

Anche i dati reali certificano il consenso intorno ai partiti di governo. L’atteso ribaltone alle elezioni Regionali tenutesi nel 2025 non è avvenuto. Nessuno scossone, con i due schieramenti che si sono sostanzialmente confermati dove già governavano. Anche la partita considerata più contendibile, quella delle Marche, la coalizione e il partito meloniano hanno tenuto.

Certo che le opposizioni in questi tre anni hanno indirettamente contribuito a stabilizzare il consenso, facendo notizia più per spettacolari divisioni (vedi alla voce: Terzo Polo) e logoranti dibattiti in cerca di alternative credibili (vedi alla voce: campo largo), o di una linea politica che non fosse agli antipodi tra Unione europea e imperialismo russo (campo largo, again).

Sondaggi alla mano, l’unico elemento che a oggi sembra poter mettere in discussione un bis di Meloni&co è come è costruita la legge elettorale. E non è un caso che la sua modifica sarà tra gli argomenti principali dell’anno che sta arrivando, che ci accompagnerà verso il finire della legislatura.

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