Basta scorrere l’elenco delle leggi approvate per capire a che punto è il Parlamento siciliano e quanto sia fuorviante la ricostruzione del suo presidente, Gaetano Galvagno, durante la cerimonia del Ventaglio. In due anni e mezzo di legislatura, l’Assemblea regionale ha prodotto più carte che riforme. Delle 79 leggi approvate – come confermava un report di Repubblica qualche giorno fa – ben 29 sono ratifiche di debiti fuori bilancio. Il resto è una sequenza di micro-interventi normativi, modifiche di confini comunali, leggi omnibus e una pioggia di contributi una tantum.
Eppure il presidente dell’Ars, di fronte ai giornalisti della stampa parlamentare, ai quali ha ribadito con sfrontatezza di non volersi dimettere, continua a rivendicare numeri: 960 disegni di legge presentati, 809 di iniziativa parlamentare e 151 del governo. Un incremento del 20% rispetto alla scorsa legislatura, precisa con orgoglio. Ma i numeri non bastano a nascondere una realtà politica che si muove a vuoto.
L’attività legislativa langue. Le riforme annunciate sono scomparse dai radar. Quelle considerate “qualificanti” sono state affossate da chi avrebbe dovuto sostenerle. È il caso della riforma dei Consorzi di bonifica, definita strategica dallo stesso Schifani, ma impallinata in Aula dai franchi tiratori interni alla maggioranza. Un colpo di grazia politico che ha rivelato, una volta di più, la fragilità degli equilibri che reggono Sala d’Ercole. Dopo la figuraccia – emersa in tutto il suo clamore nello scontro fra Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo – il centrodestra ha scelto di spostare l’attenzione sul regolamento. Obiettivo: abolire il voto segreto.
La proposta, che già aveva avanzato Musumeci durante la scorsa legislatura (l’ex governatore, in caso contrario, minacciò di non presentarsi più in aula), è stata concordata un’ora prima del Ventaglio, durante un incontro a Palazzo d’Orléans tra Galvagno e lo stesso Schifani. Quest’ultimo, al Giornale di Sicilia, aveva già preannunciato le proprie intenzioni in una intervista del 16 luglio scorso: «Presenterò una norma per abolire il voto segreto. O meglio, limitarlo come accade in Senato». E con ironia involontaria (?) aveva aggiunto: «Spero che la mia maggioranza voti con senso di responsabilità, soprattutto se la riforma verrà esaminata con voto segreto». Galvagno ha rincarato: «Questo Parlamento ha la possibilità di scrivere una pagina importante. Mi auguro che nessuno chieda il voto segreto nel momento in cui si dovrà votare questa riforma». Una scena da commedia degli equivoci, che conferma il corto circuito istituzionale in corso.
Nel frattempo, le vere riforme restano bloccate. Il disegno di legge di riforma del comparto forestale – si è visto l’impatto dei roghi a fronte di una manutenzione incompleta e di un numero di operai esiguo – è fermo. Quello sulla pubblica amministrazione, con l’auspicio di creare una fascia unica dirigenziale e normare un vulnus ventennale, è sparito. La riforma degli enti locali – che prevedeva anche il 40% di donne nelle giunte comunali – è impantanata da mesi. Della riforma delle ex Province, promessa con elezione diretta, non c’è più traccia: si è tornati al voto di secondo livello, con il centrodestra diviso ovunque.
In compenso, si approvano leggi finanziarie (e “manovrine”) zeppe di emendamenti ad personam e norme spot, alcune delle quali finite nel mirino della magistratura. La Procura di Palermo, partendo dalla corrente turistica di Fratelli d’Italia e dallo scandalo di Cannes, ha aperto un’inchiesta che ha svelato un sistema di gestione opaca dei fondi pubblici, erogati non sempre in base a criteri oggettivi (su questo punto si era soffermato anche il Ministero dell’Economia, minacciando l’impugnativa), ma in cambio di utilità personali. Una questione morale gigantesca, che riguarda direttamente il presidente dell’Ars e l’assessore al Turismo Elvira Amata, entrambi indagati per corruzione.
Nel fascicolo emergono i rapporti tra Galvagno e la sua ex portavoce Sabrina De Capitani, protagonista di numerose intercettazioni in cui si fa riferimento a “Gae” e ai suoi rapporti con ambienti imprenditoriali pronti a sostenerlo (per le future competizioni elettorali) ed allietarlo (con abiti sartoriali o biglietti per i concerti). Lui, interpellato, ha scelto la linea attendista: «Conoscete il mio rispetto per le istituzioni. Ma dimettermi prima del pronunciamento di un giudice, su una richiesta del Pm che ancora non c’è? Al momento non posso dire cosa succederà». Come se non fosse già successo abbastanza. Galvagno ha persino elogiato la sua “califfa” per aver fatto compiere un passo avanti, in termini di utili, alla Fondazione Federico II: tralasciando le irregolarità dell’incarico conferitole e il mancato controllo sugli atti da parte del Consiglio di presidenza.
Ecco allora il quadro completo. Un Parlamento che non riforma, non decide, non governa. Ma distribuisce mance. Dove le grandi riforme vengono prima sbandierate e poi seppellite. Dove le fratture della maggioranza sono all’ordine del giorno. Dove il voto segreto è diventato la scusa perfetta per non assumersi le responsabilità politiche. E dove la crisi istituzionale si somma a una crisi etica, profonda, non più eludibile.
Fine indagini per Galvagno
La Procura di Palermo ha notificato l’avviso di chiusura dell’indagine, atto che solitamente precede la richiesta di rinvio a giudizio, al presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana Gaetano Galvagno, sotto inchiesta per corruzione impropria e peculato d’uso. L’esponente di Fdi e il suo cerchio magico, secondo i pm, «sistematicamente sviavano e sottomettevano le proprie funzioni pubblicistiche agli interessi privatistici». A Galvagno vengono contestati anche 60 viaggi “per finalità extraistituzionali” con l’auto di servizio.