Altro che via della seta: tra Pechino e Palermo potrebbero inaugurare la via dell’arancia. E’ appena giunto a Shanghai il primo carico di arance siciliane. Sono rimaste rinchiuse per due mesi in due container e stipati su una nave. Erano stati selezionati i frutti migliori, ma alcuni soni giunti a destinazione un po’ mollicci. L’ambasciata italiana a Pechino ha salutato con enorme soddisfazione questo traguardo. “Si aprono un nuovo mercato e grandi opportunità per i produttori italiani”. L’export del Belpaese che riesce a raggiungere una piazza così ambita in realtà potrebbe ispirare voli pindarici. Ma è pur sempre il mercato cinese. Quello che disconosce la lotta alla contraffazione. E in cui la fregatura è sempre dietro l’angolo.

Nella Valle dell’Etna, ad esempio, nasceva negli anni ’80 la Att Oranfresh, azienda che conta su un indotto di 300 lavoratori e che nel 1995 ottenne il brevetto per la realizzazione di sofisticate macchine spremiagrumi, che cominciò a esportare all’estero (tra i vari paesi anche l’America). L’azienda, non molto tempo fa, è riuscita a chiudere una partita di spremiagrumi con un distributore cinese – circa 300 pezzi – che sarebbero finiti anche sul mercato di Taiwan e Singapore. Sembrava il presagio a una gigantesca espansione. Ma nel giro di poco tempo i cinesi hanno copiato il prodotto, infischiandosene del brevetto, e cominciato a distribuire illecitamente le proprie macchine a un prezzo del 30% inferiore rispetto a quello italiano. Ce l’hanno sfilato sotto il naso e copiato. Di tutto punto. “Si parla di fare business con i cinesi, giusto – ha detto Alessandro Torrisi, ceo di Oranfresh, al Foglio – Ma il problema dei brevetti da difendere non può essere dimenticato. L’assistenza del governo e delle istituzioni italiane deve essere vera, anche perché queste cause sono molto costose e incerte”.

Non si tratta di un caso isolato. Di contenziosi aperti fra Italia e Cina ne esistono a dozzine. Eppure siamo sempre più attratti da questa potenza mondiale. Tant’è che il governo italiano ha deciso di mandare a Pechino un bel carico di arance. Non esattamente nuove ai cinesi, dato sono originarie di quelle parti. La missione dei nostri “tarocchi” è stata sponsorizzata a più riprese anche dal ministro allo Sviluppo Economico Luigi Di Maio, e dal collega grillino Cancelleri, che a novembre annunciavano il trasporto aereo delle arance. Ma le arance a Pechino ci sono comunque andate via mare. E difficilmente potranno imporsi. La Cina infatti è il primo produttore di agrumi al mondo (circa il 25%, più di tutto il bacino mediterraneo messo assieme). Mentre l’Italia non è nota per avere un mercato florido, a livello di export, nel settore dell’agroalimentare: quello verso la Cina vale appena 38 milioni l’anno. Nulla in confronto ai macchinari (3,8 miliardi) e ai prodotti chimici. Mentre Xi Jinping viene in Italia per aprire dei canali sul piano delle infrastrutture e del 5G, e per valutare un importante investimento sul porto hub di Palermo, l’Italia risponde con le arance. E se ne vanta. Storture di un commercio che fin qui ha regalato più dolori che gioie.