La Democrazia cristiana non c’è più. O meglio: c’è ancora, ma come quei relitti che continuano a galleggiare anche dopo l’impatto, attirando squali, sciacalli e vecchi parassiti di ritorno. La caduta rovinosa di Totò Cuffaro – oggi ai domiciliari, con un’inchiesta per corruzione che ne ha certificato l’uscita di scena definitiva – ha aperto ufficialmente la stagione della spartizione. Non una successione politica, ma una lotta per accaparrarsi i resti di un partito ormai “contaminato” ma ancora numericamente appetibile.
Renato Schifani lo ha capito prima di tutti. E ha agito di conseguenza. Nessuna esitazione, nessuna indulgenza natalizia: la Dc è stata azzerata dalla giunta, senza troppe spiegazioni e senza ripensamenti. Gli incarichi di Andrea Messina e Nuccia Albano revocati, la linea ribadita anche ieri davanti ai giornalisti: non ho estromesso due assessori, ho estromesso un partito. Una formula chirurgica, che serve a mettere al riparo Palazzo d’Orléans dall’onda lunga dell’inchiesta cuffariana e a certificare che, nella Sicilia che “cresce”, non c’è spazio per modelli di gestione giudicati incompatibili con l’idea presidenziale di trasparenza (per la Amata e Fratelli d’Italia vale il doppiopesismo, ma questa è un’altra storia).
Eppure la Dc, nel frattempo, ha continuato a fare il suo mestiere: ha votato la Finanziaria, ha garantito la tenuta della maggioranza, ha sperato fino all’ultimo in un ripensamento del presidente. Speranza mal riposta. Perché Schifani, oggi, non ha alcun bisogno di indulgenze: si sente forte, protetto, proiettato oltre il rimpasto e già immerso nel racconto del “2026 anno della svolta”, con la prospettiva di una super-finanziaria estiva da oltre due miliardi di euro e l’orizzonte – nemmeno troppo lontano – della ricandidatura. In questo scenario, la Dc non è più un alleato: è un problema da smaltire. E allora via alla caccia.
C’è il lupo solitario, Cateno De Luca, che osserva da lontano la carcassa e prova a infilarsi negli spazi lasciati liberi, sognando intergruppi e manovre di disturbo. Ma l’idea di trasformare la Dc nel cavallo di Troia di “Scateno” dentro il governo regionale, come riportato da Barresi su ‘La Sicilia’, viene respinta senza troppi complimenti. Capitolo chiuso, o quasi. Lo stesso De Luca, confermando le parole del governatore, ha ribadito di essere un suo avversario politico, mentre gli orfani di Cuffaro – che vantano ancora qualche posizione di prestigio nel sottogoverno – non potranno rinunciarvi a cuor leggero.
C’è poi l’immarcescibile Lorenzo Cesa, che torna a fiutare l’aria siciliana con l’Udc come scudo e come rifugio per i cuffariani rimasti senza guida. Il consiglio nazionale del 10 gennaio servirà a prendere atto delle dimissioni irrevocabili del leader, ma soprattutto a capire come redistribuire il gregge. Una delle ipotesi in campo prevede un travaso collettivo sotto le insegne dell’Udc, che all’Ars vanta una sparuta rappresentanza (ci sarebbe Serafina Marchetta, eletta nel listino del governatore, iscritta al gruppo parlamentare della Dc, ma moglie del segretario regionale Decio Terrana).
Ma c’è anche l’opzione più cinica e, per certi versi, più efficace: Forza Italia. È qui che il presidente alterna bastone e carota, offrendo approdi rassicuranti a chi accetta di attraversare la linea del Piave. In provincia di Ragusa, per esempio, gli azzurri non hanno deputati regionali: un vuoto che rende improvvisamente appetibili profili come Ignazio Abbate, già sindaco di Modica, presidente della commissione Affari Istituzionali dell’Ars e, da mesi, in rampa di lancio per un posto di assessore. Che neppure Cuffaro ha trovato il modo di garantirgli. Non è difficile capirne il motivo: Abbate, alle scorse Europee, ha sposato la causa di Edy Tamajo senza alcuna benedizione dall’alto. Ma nell’orbita di Forza Italia c’è un altro elemento di spicco dell’universo Dc, a cui il coordinatore Marcello Caruso sarebbe pronto a concedere una tessera: parliamo del satrapo della Sas, Mauro Pantò. Lo stesso citato da Cuffaro nelle carte dell’inchiesta per la “disponibilità” di circa 4 mila Pip in seno alla partecipata.
Nel mezzo, il quadro all’Ars continua a muoversi. L’ultimo verdetto della Cassazione riporta in Parlamento Santo Primavera al posto di Salvo Giuffrida: entra un autonomista, esce un democristiano. Entrambi erano passati dalla lista Sud chiama Nord prima di mollare De Luca. Il plotone della Dc si restringe a sei unità (una di queste è il capogruppo Carmelo Pace, anch’egli indagato per corruzione). Poche, ma ancora decisive. Abbastanza per rendere quella carcassa ancora contesa.
La morale è semplice: la Dc non governa più, ma continua a pesare. Non per ciò che rappresenta, ma per ciò che resta. E mentre Schifani si muove da regista freddo, deciso a bonificare il campo senza perdere il controllo della maggioranza, attorno alle spoglie si affollano vecchi e nuovi predatori. Perché in Sicilia, anche quando un partito muore, c’è sempre qualcuno pronto a riciclarne i resti.


