Passi per il padre condannato per mafia (morto 60 anni fa) e per le polemiche innescate da Report. Ma questa no. L’assessore Albano poteva (e doveva) risparmiarcela. Sostiene di aver accettato per una ragione di “colleganza” l’incarico di consulente medico-legale di Alfonso Tumbarello, reo di aver nascosto le tracce di Messina Denaro durante la latitanza (da qui l’accusa di concorso esterno). E di aver rinunciato, in poche ore, perché la vicenda è stata “enfatizzata”.

Oddio. Albano, in quota Dc, è assessore da quasi tre anni. Frequenta il partito di Totò Cuffaro, condannato per favoreggiamento e tuttora vittima – nonostante abbia pagato il prezzo con la giustizia – di un ostracismo recalcitrante. Albano di professione fa la politica e rappresenta le istituzioni. Dovrebbe avere ben impressi in mente il significato e la valenza della questione morale; dovrebbe conoscere a menadito le storture e i rischi dei processi mediatici; dovrebbe saper scindere fra buon esempio e cattivo esempio; dovrebbe sapere chi è Messina Denaro e cosa comporta, per un uomo o una donna delle istituzioni, incrociare la propria traiettoria con quella dell’ex capo mafia.

Invece no: ha visto la buccia di banana e ci è tuffata sopra. Perché stavolta non c’entra una storia rievocata sessant’anni dopo; non c’entra la colleganza, l’amicizia, il sentimento per un ex specializzando ai tempi del Policlinico. C’entra l’imprudenza, l’inadeguatezza al ruolo, l’incapacità di discernere. La leggerezza nell’interpretare un ruolo che pretende grande responsabilità. “Inimmaginabile che non avesse rinunciato”, ha detto Schifani sulla questione. Ma siamo già oltre: il punto non è che Albano abbia rinunciato, ma perché – prima – abbia deciso di accettare.