«Fusse che fusse la vorta bbona», ripeteva Nino Manfredi. Chissà, intanto il tormentone è ripartito. Nell’agenda politica – così si dice per attribuire alla faccenda un non so che di solennità – sono rispuntale le intercettazioni. Prima o poi arriva il momento in cui ogni ministro della Giustizia che si rispetti, oggi tocca a Carlo Nordio, debba misurarsi con il più divisivo dei temi. Non c’è neanche il brivido dell’effetto sorpresa. Da vent’anni la politica parla molto e combina poco o niente. Tutti a ripetere che serve una riforma, e pure urgente, ma nessuno che finora ne sia venuto a capo. Incontri, vertici, dibattiti parlamentari si susseguono alimentando scontri fra fazioni. Immancabilmente c’è chi la butta in caciara. Guai a sollevare questioni di civiltà in un paese cresciuto con l’impronta della massima di Piercamillo Davigo secondo cui, «non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti». Chi lo ha fatto è stato a lungo tacciato di essere amico di mafiosi, lobbisti e tangentisti.

Qualcuno sul tema intercettazioni ci ha messo le mani più di altri, ma il risultato nel migliore dei casi sono state delle riforme timide. C’è un’altra certezza, tutta italiana: la magistratura, spalleggiata dai giornalisti, non è mai contenta. Vede sempre aggirarsi lo spettro dell’interferenza della politica sulle indagini, grida al complotto, mette in guardia dai favori che si stanno per fare a criminali di ogni sorta, denuncia attentati all’indipendenza delle toghe. Difficilissimo trovare una sintesi tra chi ritiene troppe le intercettazioni e chi troppo poche. Tra chi contesta (come dargli torto!) l’armamentario da gogna mediatica e chi reputa le intercettazioni un’arma indispensabile per le indagini. E si spinge fino ad autorizzarne un uso spudorato, al di là di ogni garanzia, considerando lo sputtanamento un effetto collaterale e secondario. Eppure sarebbe bastato fissare un punto: le intercettazioni penalmente irrilevanti non dovrebbero essere pubbliche. Invece no, giornalisti voraci per lettori onnivori hanno iniziato a scavare nella melma delle intercettazioni inutili, convincendo il pubblico che è lì, nella spazzatura dei brogliacci, che si nasconde la verità. Scavano con la certezza che un pubblico ministero qualcosa di suggestivo deve avere disseminato, qua e là, in migliaia di ore di trascrizioni.

La riforma delle intercettazioni, a giudicare, dal dibattito politico è considerata una priorità. Per alcuni un’ossessione. Di sicuro è un fantasma che si aggira attorno al nuovo governo ad ogni inizio di legislatura. Sia esso di centrodestra o di centrosinistra, o frutto di maggioranze contro natura. Perché allora non si riesce a risolvere la questione? Gli umori politici ondeggiano, a volte diventano schizofrenici. Non è un caso che l’attuale legge in vigore, quella del ministro Orlando modificata in chiave grillina da Bonafede, muovesse dalla sacrosanta necessità di stoppare il fango della pubblicazione di intercettazioni inutilizzabili e penalmente irrilevanti e abbia finito per dare il via libera, con la stessa riforma, ai trojan nei telefonini e alle reti a strascico sulle conversazioni degli indagati. Da garantista a forcaiola in un attimo.

Si fa sempre un gran baccano, ma in sostanza quasi niente è cambiato. Forse perché niente si vuol cambiare. Mors (intercettazione) tua, vita mea. Scoppia uno scandalo, qualcuno finisce per mesi in prima pagina, ma poi si volta pagina.

Carlo Nordio, attuale guardasigilli ed ex magistrato, ha inserito la questione nelle sue linee programmatiche. C’era da aspettarselo, visto che non sono nuove le sue posizioni. È stato caustico nel sostenere che la «diffusione pilotata e arbitraria di intercettazioni non è civiltà, non è libertà, ma è una porcheria e una deviazione dei principi minimi di civiltà giuridica sulla quale questo ministro è disposto a battersi fino alle dimissioni». Da qui la necessità di una «profonda revisione» del sistema delle intercettazioni che «dovrebbero essere strumento di ricerca della prova», ed invece «sono diventate strumento di prova e come tali, essendo state inserite nelle ordinanze di custodia cautelare, sono state divulgate nei giornali». Bisogna arginare la valanga di «porcherie, selezionate, pilotate, diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva». Le toghe rispondono preparando le barricate. Va così da sempre.

Nordio si è mosso con piglio deciso. I suoi predecessori non erano stati da meno, però. Scorrendo gli almanacchi neppure gli altri ministri della Giustizia hanno difettato di buone intenzioni e discorsi dall’alto valore civico. «La gogna mediatica senza processo e senza colpevoli dal punto di vista giudiziario deve finire», tuonava Roberto Castelli, ministro del terzo governo Berlusconi. Era il 2005 quando il leghista si diceva pronto a mettere dei paletti sull’utilizzo illecito di «una delle armi più efficaci in mano ai nemici della democrazia». Si pensò a multe salatissime per chi divulgava le intercettazioni coperte da segreto. Idea che aveva trovato sponda anche dall’altra parte della barricata, a sinistra. Il disegno di legge approdò in Parlamento, ma poi ci furono le elezioni. E le idee cambiano in fretta, come i governi. Arrivò l’esecutivo di Romano Prodi, ministro della Giustizia Clemente Mastella dell’Udeur. Nel frattempo fra “Vallettopoli”, “Calciopoli” e scalate bancarie i giornali campavano di intercettazioni. Nel tritacarne ci finiva di tutto, anche le voci di autorevoli esponenti di sinistra, fino ad allora risparmiati, come il vice premier e ministro degli esteri Massimo D’Alema e il segretario dei Ds Piero Fassino. Nei giorni della scalata (fallita) di Unipol alla Bnl il giudice per le indagini preliminari di Milano li aveva definiti «consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata». Consapevoli, ma non indagati. Che importava. La sinistra scopriva il voyeurismo giudiziario, che toccò una delle punte più basse con la pubblicazione di un sms d’amore (sì, d’amore) di Anna Falchi a Stefano Ricucci. Era stato trascritto nell’inchiesta e travasato sui giornali. Tutto l’arco parlamentare, da destra a sinistra, si indignò. Sulla scia di questa onda emotiva nell’aprile 2007 sembravano fare sul serio. Alla Camera con 447 voti favorevoli, 7 astenuti e nessun voto contrario, fu approvato il disegno di legge Mastella sulle intercettazioni. «Un grande, esaltante momento della nostra attività parlamentare», esultò il ministro. Che tratteggiò uno scenario apocalittico. Bisognava salvare l’Italia: «Nell’aria c’era una sorte di nube tossica e le intercettazioni illegali sono la scoria radioattiva della democrazia italiana, con questo decreto abbiamo innalzato una garitta a difesa dei valori costituzionali e per evitare forme di attentato alla democrazia».

Il disegno di legge vietava la pubblicazione, anche parziale, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del pubblico ministero o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti dal segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari. Chiunque rivelava notizie sugli atti del procedimento coperti da segreto e ne agevolava la conoscenza era punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Dopo il voto bulgaro alla Camera, il Partito democratico nel tragitto verso il Senato cambiò idea e l’iter si arenò. C’era da misurarsi con una nuova campagna elettorale. Il garantismo non era una buona carta da giocare. Meglio mostrarsi duri e puri. Destino volle che fosse un’inchiesta della magistratura a travolgere tutto e tutti. I media la presentarono come “Mastella connection”, una maleodorante spartizioni di nomine. La moglie del ministro, Sandra Lonardo, presidente del consiglio regionale della Campania, fu addirittura arrestata. Il ministro si dimise, contribuendo alla caduta del governo Prodi. Nove anni dopo furono tutti assolti. La gogna mediatica ha lasciato cicatrici eterne sulle vite dei protagonisti, mentre gli altri si arrogano il diritto di avere la memoria corta.

Dopo Prodi fu la volta del quarto governo Berlusconi, ministro della giustizia era Angelino Alfano. La legge che portava il suo nome fu subito catalogata come “bavaglio”. Un provvedimento teso nelle intenzioni ministeriali «a riaffermare il diritto alla privacy dei cittadini». Per le opposizioni – la sinistra nel frattempo aveva cambiato idea – era «la morte della giustizia penale in Italia». «Non si può intercettare tutto e sempre. Se si dice che più si intercetta più reati si scoprono – tuonava Alfano – allora intercettiamo tutti gli italiani 24 ore su 24. Così scopriremo certamente tanti reati, ma avremo uno Stato di Polizia». Alfano prevedeva l’impossibilità di pubblicare, tranne per riassunto, anche atti non coperti più dal segreto istruttorio fino al termine delle indagini preliminari. Divieto assoluto per le intercettazioni. Era davvero troppo per non scatenare reazioni avverse. Mancava di continenza, come quando invece di richiamare i giornalisti al rispetto delle regole, evitando di pubblicare i rigurgiti gossippari delle intercettazioni buone solo nella misura in cui vi incappa qualche politico, si è ventilata l’ipotesi di arrestare i cronisti. Eccessi di un dibattito poco sereno.

Dopo una prima approvazione alla Camera e un passaggio al Senato, il ddl Alfano sparì dai radar dopo che il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, lo aveva stoppato. Anni dopo lo stesso Alfano avrebbe provato sulla sua pelle, nel bene e nel male, la forza delle intercettazioni. Le definì «barbarie illegale” quando fu trascinato nell’inchiesta romana sulla cricca dei raccomandati assunti in Poste italiane. Era il 2016 e Alfano faceva il ministro dell’interno nel governo di Matteo Renzi (allora Pd), entrando in una maggioranza di centrosinistra con il suo partito, Ncd (Nuovo centro destra). Una contraddizione in termini. Sempre da ministro dell’interno (Alfano è il più longevo della storia della Repubblica, 1836 giorni consecutivi alla guida di un dicastero), Alfano incassò la solidarietà quando i boss della provincia di Palermo lo minacciarono di morte. Per la verità straparlavano rabbiosi, immaginando di fargli fare la stessa fine di Kennedy perché «è un cane per tutti i carcerati». La minaccia era poco credibile, ma era pur sempre una minaccia e il circo mediatico si attivò con i colleghi che facevano la fila per mostrare vicinanza ad Alfano.

Alcuni ministri sono stati impalpabili sul tema intercettazioni. Le crisi di governo non hanno lasciato spazio e tempo per agire a Nitto Palma, Paola Severino, Anna Maria Cancelleri.

Diverso il discorso per Andrea Orlando, guardasigilli del Governo Gentiloni, la cui riforma, seppure stravolta nella sua iniziale idea, è ancora in vigore. Usò una frase ad effetto per rendere l’idea: «Bisogna evitare un Grande fratello permanente. L’Italia è l’unico paese al mondo in cui le intercettazioni telefoniche finiscono sui giornali con tanta facilità, ma la Costituzione non prevede questo strumento come supplemento dell’attività di cronaca». La sua riforma, varata nel 2017, prevedeva una «selezione» delle intercettazioni «non penalmente rilevanti», da conservare in un archivio digitale. Forse era un buon compromesso fra la tutela della privacy e le esigenze investigative. Si metteva quantomeno un filtro tra le intercettazioni usate per indagare e quelle usate per altri fini che hanno nulla a che fare con la giustizia.

La riforma restò in attesa, fin quando non comparve sulla scena il neo ministro Alfonso Bonafede del governo gialloverde (M5Stelle – Lega). Il giustizialismo al potere, l’incarnazione politica delle partito delle Procure si ritrovava a dare le carte. Ed ecco lo stop alla riforma Orlando. «Impediamo che venga messo il bavaglio all’informazione» perché – disse Bonafede – «la riforma Orlando era stata scritta con l’intento di impedire ai cittadini di ascoltare le parole dei politici indagati». Ci andò giù durissimo. Nel mirino finirono soprattutto quelli del Pd. Ogni riforma del passato era coincisa con uno “scandalo” e l’ultima, così disse, è stata fatta «in concomitanza col caso Consip». «Ogni volta che qualcuno del Pd veniva ascoltato qualcuno del Pd tendeva a tagliare la linea», accusò Bonafede.

Dopo tre anni di rinvii la riforma Orlando, sospesa e modificata da Bonafede, entrò in vigore nel 2020. Era nata con l’obiettivo di tutelare la privacy e la dignità delle persone coinvolte in procedimenti giudiziari, limitando la pubblicazione sui giornali di intercettazioni penalmente irrilevanti, e finì per dare il via libera all’utilizzo del trojan. Il furore giustizialista grillino aveva cambiato la sostanza delle cose. Nel frattempo il governo non era più gialloverde, ma giallorosso. Era uscita la Lega e accanto al M5Stelle c’era il Pd. Sì, gli stessi che secondo Bonafade pur di non essere intercettati «tagliavano la linea». Ma la politica si sa è compromesso. La norma prevede che sia il pubblico ministero a vigilare affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o dati personali sensibili. A meno che non si tratti di «intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini». Chi lo decide? Sempre il pubblico ministero, alla cui professionalità non resta che appellarsi. D’altra parte l’Italia è un paese dove sono stati pubblicati atti mai resi noti alle parti. L’epopea delle intercettazioni va avanti. Nordio ha detto la sua, l’Associazione nazionale magistrati lo ha attaccato. Maggioranza e opposizione si scontreranno. Tutto secondo copione. Il tormentone è ripartito.