La prima volta che Lindsay Kemp venne a Palermo era il 1982. Primi di ottobre, credo. Bellissime giornate di sole. Dovevo intervistarlo. Lo aveva invitato in città per uno stage Sandro Dieli, attore e mimo palermitano, che aveva seguito l’estate precedente, a Montepulciano, alcune lezioni di Marceau e altre sue e ne era rimasto incantato. “Andiamo a prenderlo insieme alla stazione”, mi propose. Ora voi immaginate un signore inglese alto e stacciuto, ma distinto, comunque un omone, scendere dal treno in arrivo da Roma con dei larghi pantaloni di cotone color tabacco, un’ampia camiciona di lino crema, un foulard di seta ton sur ton che, svolazzante da un convoglio che frena sul binario 4, fa un po’ effetto Isadora Duncan. Presentazioni molto allegre più che di rito (Kemp era già italiano d’adozione, romano di temporanea residenza e aveva entusiasmato i teatri della Capitale con innumerevoli repliche di quello che resterà forse il suo capodopera, “Flowers”), strette di mano e abbracci tutt’altro che impacciati e via sul vecchio catorcio (una 850 sabbia) passatami da mio padre. Si va in albergo? Macché. Lindsay voleva vedere la città. Subito. Anche così, dal finestrino dell’auto, a volo d’uccello. E fu una sequela di “oh, so wonderful”, “oh, it’s fine”, “uuuhhh, beautiful”, da piazza Borsa al Teatro Massimo, dalla Vucciria al Politeama, un giro folle, sconclusionato, approfondimento storico quasi zero, solo pura emozione visiva. Era il suo modo di vivere le cose, specie la scoperta di realtà nuove e diverse.

Dieli ricorda che non gliene andò bene una della scuole di danza proposte per ospitare lo stage dopo che aveva bocciato la prima, troppo umida una, troppo buia l’altra, troppo stretta l’altra ancora. E così, casualmente, finì che le lezioni si tennero sul palcoscenico del Teatro Biondo, occasionalmente offerto da non si sa più chi e che quel cambiamento improvviso – dall’angustia di una sala prove allo spazio ampio di una scena autentica con la platea vuota per specchio – sortì un effetto magico non solo nel moltiplicarsi del numero dei partecipanti ma anche nella già debordante ed estemporanea comunicativa del maestro, nelle frecce che scoccava la sua creatività.

Non perché adesso sia morto ottantenne a Livorno e occorra celebrarlo ma Kemp ha certamente cambiato l’approccio all’arte del mimo, alla pratica del teatro-danza non solo con la “follia” che gli si riconosceva ma anche con la ragione dello studio e del metodo, pur sovvertendo qualsiasi metodo. Era stato allievo di Marceau, quel ragazzone dell’Inghilterra del Nord che aveva frequentato buone scuole, s’era visto avversato dalla famiglia quando aveva confessato di voler entrare in arte (il mimo? il ballerino?, che mestieri sono?), che era stato cacciato da un’accademia navale quando, per la fregola di esibirsi, aveva creato una pantomima nudo, vestito solo di carta igienica.

Marceau, da Sommo Maestro dell’Arte del Mimo, gli aveva insegnato a giocare soprattutto con le mani. Ma aveva mani sottili, il suo mentore, nervose ma aggraziate. L’allievo aveva invece mani troppo grandi, muscolose, ruvide. Se c’era una cosa però che Marceau gli aveva insegnato era proprio quella di non nascondere i propri difetti, il corpo bisogna mostrarlo anche nelle sue imperfezioni, che tu faccia il mimo o no. “E allora falle vedere, quelle mani, mostrale, mettile in primo piano e si trasformeranno, diventeranno bellissime, un incanto”. Così era, così fu. Era l’arte della trasfigurazione, e tutto il teatro di Kemp (mimo, danza, teatro-danza, chiamatelo come volete, anche se i suoi spettacoli erano tutti interamente coreografati nei più piccoli dettagli) sarà sempre un processo (a volte anche un miracolo) di trasfigurazione, sia che ad ispirarlo fosse Genet o Shakespeare, o Lewis Carrol, sarà il ribaltamento sognante della realtà, sarà un luogo magico dove la fantasia imbelletta perfino il male (“pensate di tagliarvi e che il vostro sangue esca a fiotti, ora pensate che questo rosso vivo si trasformi, immaginate, in fiori di ciliegio”): uno psichedelico visionario della cui arte, non a caso, si invaghirono David Bowie e Kate Bush, e Mick Jagger.

Tornò dieci anni dopo, Kemp, a Palermo, per un altro stage. Amava bere e una sera che alla Vucciria aveva esagerato con i bicchieri, mentre lo riaccompagnavano in albergo, chiese ai suoi allievi di fermarsi in piazza Politeama dove, a notte quasi fatta, inscenò con loro una performance che accolse il favore dei pochi passanti. Questa volta fu anche organizzata una mostra dei suoi dipinti (altra sua grande passione, la pittura, e non troppo “a latere”) e quando una visitatrice gli chiese, durante il vernissage, un disegno su una maglietta, lui la accontentò di buon grado litigando subito dopo furiosamente in pubblico con la sua agente che voleva bloccarlo perché stava regalando un’opera d’arte.

Kemp era fatto così: furori e dolcezze, curiosità e malinconia, follia e rigore british albergavano insieme in quel corpo da minatore dello Yorkshire che aveva la grazia di una silfide e la leggiadria di un folletto.