Il governo Schifani è al capolinea. Non lo dicono soltanto i numeri impietosi delle votazioni di ieri sulla manovra-quater, affossata a colpi di voto segreto; ma la quotidiana perdita di credibilità di un presidente che non riesce più a tenere insieme né la sua maggioranza né il suo partito. Tre articoli su nove bocciati in avvio di seduta (ne seguiranno degli altri) erano bastati a fotografare il caos: Sala d’Ercole è un campo minato e i franchi tiratori, questa volta, non hanno neppure l’esigenza di nascondersi. Tutti sanno chi sono.
La vicenda del mancato finanziamento al film su Biagio Conte è la fotografia di questa debolezza. Schifani, dopo le proteste della produttrice e la lavata di capo rivolta all’assessore Amata (graziata in virtù dell’antico patto con La Russa), aveva promesso di intervenire personalmente per garantire nuove risorse utili a far scorrere la graduatoria della Film Commission (guidata dall’inossidabile Tarantino). Un impegno solenne, che si è arenato senza produrre nulla. Segno che la sua autorevolezza in giunta è evaporata e che ogni impegno rischia di trasformarsi in un boomerang. Il voto segreto che ha fatto crollare la manovra-quater è stato letto come uno sgarbo nei suoi confronti. E, in successione, anche nei confronti dell’assessore Dagnino, mai davvero riconosciuto dai vertici forzisti perché nominato in giunta come “tecnico” d’area.
Dopo la bocciatura dei primi articoli, il presidente Galvagno – anche in questo caso una figura delegittimata dalle accuse di corruzione e peculato – ha sospeso i lavori. Nella sua stanza si sono riuniti assessori e capigruppo nel tentativo di rianimare il paziente. Al ritorno sono volati stracci e accuse (tra Fratelli d’Italia e Forza Italia: i patrioti sono rimasti in aula a dispetto degli ordini di scuderia), ma soprattutto sono stati bocciati altri articoli: in primis quello sul southworking e sul fondo permanente per l’editoria, di cui Schifani era big sponsor.
Dietro i franchi tiratori si nascondono soprattutto i meloniani. Una pattuglia di 12 deputati, già in rivolta per la conferma di Iacolino e per le nomine sanitarie giudicate “di bandiera” (altrui). La diserzione della giunta di pochi giorni fa era stata il primo segnale, il voto segreto la conferma definitiva. Forza Italia non sta meglio: dentro il gruppo parlamentare cova da mesi un malcontento diffuso. Lo stesso Marco Falcone, dall’Europarlamento, ha denunciato una gestione ridotta a “somma di voti” e incapace di fare scelte. Giorgio Mulè gli ha dato ragione. E persino gli azzurri, che avrebbero dovuto difendere il presidente, hanno contribuito a colpirlo alle spalle (come avevano già fatto in passato: ricordate la riforma dei Consorzi di Bonifica?). Lo stesso Mpa, federato con gli azzurri, ha preferito rimanere in aula, favorendo lo stillicidio.
In questo vuoto di leadership si è inserito Galvagno. Indagato, politicamente logorato, ha provato a ritagliarsi un ruolo sponsorizzando la nomina di un avvocato alla Corte dei Conti. Pensava fosse un modo per riavvicinare le posizioni del governatore e dei patrioti, si è rivelata l’ennesima gaffe. Persino i Cinque Stelle gli hanno rinfacciato di aver perso “qualsiasi residua autorevolezza”, dopo aver promesso guerra alle mance e aver consegnato invece una manovra piena di micro-emendamenti. Anche Fratelli d’Italia, che pure dovrebbe difenderlo, non lo sostiene più davvero.
E così, tra franchi tiratori e gruppi in rivolta, resta solo una stampella: Totò Cuffaro. Alla festa della DC di Ribera, l’ex governatore ha garantito sostegno. Eppure la realtà è impietosa: Lombardo, nonostante la federazione con gli azzurri, non perde occasione di manifestare la propria freddezza (specie sulla sanità); FdI contesta alla luce del sole (sulla rete ospedaliera e sul “peso” delle Cardiochirurgie pediatriche) e trama nell’ombra, Forza Italia non riconosce i suoi assessori (oltre a Dagnino, anche la Faraoni). Sala d’Ercole è lo specchio di un’Armata Brancaleone che gioca di dispetti e si logora da sola, senza credibilità né prospettiva.
Con un unico filo conduttore: le manovre finanziarie. Perché a Palazzo dei Normanni – dove transitano soltanto le proposte del governo – non si discute di sviluppo o di riforme strutturali, ma solo di come spartire soldi nei collegi elettorali. Se accontentare Tizio o Caio, talvolta persino con la complicità delle opposizioni. È questo il tratto distintivo del governo Schifani, che per il resto si fa notare solo per i tentativi di lottizzazione, per la difesa ossessiva delle poltrone, per l’introduzione dei 12 supplenti.
Schifani, con questa manovrina pasticciata e imbonitrice, sperava di ribaltare i pronostici della vigilia, ma ha finito per confermarli: il suo è un governo senza futuro. L’unico orizzonte rimasto è quello cucito da Cuffaro e Sammartino, che usano la Regione come trampolino. Al resto della coalizione non interessa più nemmeno fingere compattezza. Neppure le “mance” sono bastate a rimettere insieme i cocci. Perché la verità è che questo centrodestra è morto da un pezzo. Schifani spera di rimettere le cose a posto per strappare la ricandidatura al trono. Ma quale sarà il prezzo del nuovo tentativo di pacificazione? E soprattutto: dove porterà la Sicilia?