La Finanziaria non è ancora entrata nel vivo dell’Aula, ma è già diventata un thriller istituzionale. In attesa che scorra la discussione generale e scada – venerdì a mezzogiorno – il termine per gli emendamenti, la manovra è lievitata fino a 134 articoli. Un malloppo così ampio che, più che un testo di bilancio, sembra una trappola perfetta per chiunque voglia giocare un brutto scherzo al governo. E stavolta i numeri della sfiducia (41 contrari e 26 favorevoli) non bastano a rassicurare Schifani: con la variante del ‘voto segreto’ ogni deputato potrebbe trasformarsi in un potenziale detonatore.

È questo, infatti, il vero incubo di Palazzo d’Orléans: rivivere la Caporetto dell’ultima manovra-quater, quando Sala d’Ercole – con i patrioti di Fratelli d’Italia in testa al gruppo – smontò pezzo dopo pezzo il testo del governo. Allora si disse che si trattò di un incidente, dell’effetto di qualche malpancista deciso a mandare un segnale. Ma nel frattempo i segnali si sono moltiplicati, i malumori si sono cronicizzati, e il centrodestra vive da settimane in uno stato di fibrillazione permanente che rischia di trasformare la Legge di Stabilità nella prova più insidiosa della legislatura. Schifani lo ha capito subito, tanto da convocare un vertice di maggioranza per “serrare le fila”: ieri avrebbe chiesto agli alleati di sfoltire il testo della manovra, mostrando una timida apertura sui precari (aumentando la dotazione fino a 19 milioni per garantire un parziale aumento delle ore lavorative).

Ma l’immagine che restituiscono i partiti è quella di una coalizione in equilibrio precario, dove ognuno rivendica, pretende, misura la propria forza e valuta quanto possa costargli un eventuale strappo. La strategia del governatore, dopo l’appello accorato dei giorni scorsi, è diventata una scelta di sopravvivenza: congelare tutto, rinviare ogni resa dei conti, sospendere ogni discussione su rimpasti o assetti futuri. Prima si salva la manovra, poi, eventualmente, si torna a parlare di assessorati e di equilibri interni. È una tregua armata che non entusiasma nessuno, ma che permette a Schifani di guadagnare tempo e di evitare che qualche mano invisibile, approfittando del voto segreto, mandi gambe all’aria la sua maggioranza.

Sotto questa superficie già agitata, covano le rivendicazioni delle singole anime della coalizione. Fratelli d’Italia – sebbene il partito rischi di rimanere inghiottito da scandali e guerre fra bande – non ha affatto archiviato la richiesta di sostituire Iacolino alla guida del Dipartimento della Pianificazione strategica dell’assessorato alla Salute, una partita che si trascina da mesi e che per molti meloniani è diventata un test di affidabilità del presidente. Forza Italia, dove il rantolo dei ‘ribelli’ assume consistenza col passare dei giorni, attende segnali concreti per un rimpasto che consenta al partito di liberarsi dei due assessori tecnici, Dagnino e Faraoni, sostituendoli con figure di area.

Anche il Mpa chiede uno spazio in più, convinta di esserselo guadagnato con i voti di preferenza alle ultime Europee (da cui è passato un anno e mezzo). E poi c’è la Democrazia Cristiana, che pur non essendo stata invitata al vertice di maggioranza – unica formazione esclusa dopo il ciclone giudiziario che ha travolto Cuffaro – continua a far pesare la propria collocazione parlamentare. Il messaggio è stato ribadito con toni misurati ma inequivocabili da parte del segretario regionale Stefano Cirillo: piena lealtà fino all’approvazione della Finanziaria, poi si aprirà il confronto sul rientro in giunta dei due assessori Messina e Albano. O dentro o fuori. E, sottinteso, se fuori, senza più alcuna garanzia di protezione politica.

Tutte queste partite, compresa quella delle nomine nella sanità, sono state però rinviate d’autorità al 2026. La giunta dovrà, dunque, pronunciarsi sulla designazione di Alberto Firenze all’Asp di Palermo e, dopo il via libera in commissione Affari istituzionali, su quella di Giorgio Giulio Santonocito al Policlinico di Catania. Un domino che comporta anche la scelta del nuovo direttore generale del Policlinico di Messina, dove potrebbe approdare proprio Iacolino. Una coincidenza che aggiunge tensione a tensione e che spiega la scelta di congelare tutto: ogni mossa, oggi, potrebbe spostare gli equilibri e compromettere la sopravvivenza della manovra.

Nel frattempo l’opposizione affila le armi. Dopo aver abbandonato i lavori della commissione Bilancio, Pd, M5s e Controcorrente promettono battaglia a colpi di emendamenti e puntano tutto sulla leva del voto segreto. È l’unica arma davvero efficace per mettere alla prova la solidità dei numeri della maggioranza, soprattutto dopo le ultime inchieste giudiziarie e il caso della gara per gli autisti del 118 ritirata in autotutela, su cui i dem hanno presentato una sfilza di esposti alle procure dell’Isola. Anche questo è un segnale: la legislatura è entrata nella sua fase più instabile e la Finanziaria potrebbe diventare l’innesco di qualcosa di peggiore.

E così la manovra continua a crescere come un romanzo di cui non si conosce ancora il finale. I partiti restano sospesi, le nomine congelate, i rimpasti rimandati, gli umori trattenuti a stento. Tutti attendono un segnale, tutti pretendono qualcosa (sta lievitando anche il capitolo delle misure territoriali, da indicizzare – questa volta – sotto la voce ‘infrastrutture’), tutti temono che qualcun altro lo ottenga prima. È questo, più di ogni altro elemento, a rendere la manovra un thriller politico: non l’ampiezza dei suoi articoli, ma la fragilità di una maggioranza che per salvarsi deve sperare, paradossalmente, che nessuno abbia voglia di affondarla. Un altro passo falso, oggi, Schifani non potrebbe permetterselo. E lo sanno tutti.