Al termine di una chiacchierata di mezz’ora, immersa nella storia cinquecentesca dell’oratorio di Sant’Elena e Costantino, a pochi metri dal palazzo dei Normanni e dall’esposizione appena inaugurata (si intitola “Acqua Passata¿”), Patrizia Monterosso – a precisa domanda – ci mostra un foglio con degli appunti. Sono i numeri aggiornati al 2 ottobre dei visitatori di palazzo Reale, la culla della cultura palermitana. Di cui la Monterosso, in qualità di direttrice della Fondazione Federico II, da un anno e mezzo si prende cura.

I numeri non mentono mai. Nel 2018 da palazzo Reale sono passati 730 mila visitatori, con una clamorosa impennata del 30% dall’apertura del portone monumentale. Rispetto a dodici mesi fa, inoltre, il pubblico è in crescita del 18%. Il percorso inaugurato il 12 agosto, con la visita alla sala di Re Ruggero e alla Torre Pisana, ha messo insieme 34 mila visitatori in un paio di mesi, mentre alla mostra Castrum Superius, dal 15 maggio scorso, hanno assistito oltre 223 mila persone. Inebriati da tanta abbondanza, facciamo un passo indietro: “Assieme a Gianfranco Micciché, presidente della Fondazione, sin dal primo momento ci siamo dati un metodo: quello della piena fruizione. Pur disponendo di grandi professionalità nel mondo dei Beni culturali, la Sicilia per molto tempo è rimasta imbrigliata sul concetto di conservazione, che talvolta è sfociata nel limite di una piena fruizione. Come se alle nostre bellezze mancasse l’attrattività. Oggi, rispetto a ieri, abbiamo ottenuto un risultato: aver reso più vivo quel palazzo”.

Come?

“Permettendo al visitatore di cogliere il significato emanato dai luoghi, quello che si cela dietro la bellezza. Indagando la cultura che ha portato a una scelta stilistica piuttosto che alla rappresentazione pittorica o scultorea di qualcosa”.

Avete aperto da un paio di mesi la sala di Re Ruggero e la Torre pisana. Cosa bolle in pentola?

“La prossima apertura sarà quella delle mura puniche. Ci stiamo lavorando da quattro mesi. Grazie all’accelerazione impressa dal presidente, sono certa che entro i primi di gennaio riusciremo a inaugurare questo nuovo percorso che ci permetterà di andare alle radici di Palermo”.

Persino la vostra sede, l’oratorio di Sant’Elena e Costantino, conferma questo percorso di piena fruizione della cultura.

“E’ sintomo della grande capacità di far rivivere luoghi in parte chiusi e inutilizzati. Oltre al recupero di una bellezza incredibile, eliminiamo un pezzo di apatia appartenuta a questa città. L’oratorio si trova all’interno di un quadrilatero istituzionale importante. Molti, però, non sapevano cosa ci fosse dentro queste mura”.

Cosa c’era?

“L’edificio, per un periodo, è stato sede della Compagnia della carità che assisteva i malati del vicino palazzo Sclafani, e prima ancora era il luogo in cui i reali venivano ad adorare la madonna nel mese di settembre. Quindi, rivive la città, rivivono i significati, rivivono le grandi opere e anche la maniera di concepire la bellezza come elemento dinamico per un territorio e per la sua economia”.

La notte Unesco, lo scorso 27 settembre, ha illuminato le meraviglie del palazzo Reale. L’installazione di Cesare Inzerillo, una barca che ha salvato 200 migranti a Lampedusa con mega calcio balilla annesso, è meraviglia essa stessa. Cosa rappresenta?

“Noi lavoriamo con l’arte e la cultura, e attraverso quelle dobbiamo esprimerci. Una maniera non retorica per parlare di mancanza di umanità e di indifferenza, per noi era la follia. Questa installazione proviene dal “Museo della Follia”, un museo itinerante ideato da Vittorio Sgarbi e il cui direttore artistico è Cesare Inzerillo, e c’è sembrata la maniera più forte per rendere la tensione stridente fra la rigidità di un gioco meraviglioso per tutte le generazioni, che diventa aberrante quando viene estremizzato. Qualsiasi elemento della realtà è una pallina con cui giocare”.

E le sagome sulla barca?

“Sono di uomini reali, che hanno attraversato il Mediterraneo, e oggi vivono nei centri d’accoglienza o in altre strutture di Palermo. E sono sorridenti. E’ questo il tipo di vita che dobbiamo donare, la vita che l’umanità deve pretendere per tutti”.

Perché parlare di migranti e morti in mare?

“Quando abbiamo iniziato ad approfondire i numeri, a partire dalla tragedia del 3 ottobre 2013 che vide morire a Lampedusa 366 migranti, abbiamo avuto un po’ paura e ci siamo sentiti responsabili. Fra morti e dispersi ne abbiamo contati 18 mila”.

Cosa può fare la cultura per fare in modo che l’umanità non si rassegni all’indifferenza?

“L’arte è un forte strumento di comunicazione sociale. Interloquendo con i componenti di altre comunità, diverse dalla nostra, e frequentando centri dove ci sono ragazzi, uomini, donne perfettamente integrati, ma che quella traversata l’hanno vissuta, ci siamo posti un problema serio: come esprimere il nostro punto di vista per tendere la mano e far trovare uno spazio a chi voleva fare la stessa cosa con noi. Ma senza cadere nella retorica. Quando si parla di questioni che attengono all’esistenza e alla sofferenza, tutto si può fare tranne esprimersi in maniera retorica, perché è una forma di violenza ulteriore nei confronti di una parte di umanità che soffre costantemente”.

Siete riusciti nella vostra mission?

“Con il Presidente Micciche’ volevamo creare un momento di lutto collettivo per delle morti che altrimenti rischiano di passare inosservate, e che non hanno nemmeno avuto ricevuto un momento di ritualizzazione da parte delle famiglie. Come se esistessero delle vite importanti e delle vite inutili, come se ci fosse la necessità di sottolineare che noi abbiano diritto a un funerale e a un pianto, e queste morti no”.

Perché piazza del Parlamento?

“La piazza si conferma luogo di accoglienza e d’incontro. Tutte le piazze dovrebbero esserlo, anche se a volte ce ne dimentichiamo. Quel palazzo, inoltre, rappresenta l’incontro tra le diversità, tra le differenze. Ce lo insegna la cultura custodita al suo interno”.

Nell’ottobre dell’anno scorso avevate lanciato un messaggio simile con l’installazione Inside Out dell’artista francese JR. Quattromila poster per quattromila volti.

“Acqua Passata¿ è il rimando a qualcosa che abbiamo già realizzato sui temi dell’integrazione e dell’umanità. In occasione dell’evento che lei ha citato, utilizzammo lo slogan #restiamoumani. Non siamo di fronte a un progetto una tantum, ma a un cammino. Al di là della doverosa valorizzazione del percorso storico, culturale, turistico di ciò che ci è stato affidato per legge – cioè il Palazzo Reale e il complesso percorso interno – ci sono altri aspetti che non possiamo dimenticare”.

A chi è venuto in mente il titolo della mostra “Acqua Passata¿” e cosa vuol dire quel punto interrogativo rovesciato?

“Io sono stata una di quelle che l’ha difeso. Ma è la sintesi di un ragionamento collettivo all’interno della fondazione. Abbiamo ragionato e ci siamo scontrati, come facciamo di solito per dare un’impostazione a un lavoro o a un evento. Chi fa cultura non deve mai rincorrere qualcosa di preconfezionato. “Acqua Passata¿” è la storia dei morti che non sono più con noi, quella parte di umanità che è affogata, che talvolta non ha nome, non ha volto, non sarà ricordata, e per molti è persino inutile farlo. “Acqua Passata¿” è anche la vita recuperata da chi ce l’ha fatta, per dimenticare le atrocità e per non trovarne delle altre. Quel punto interrogativo può emergere in qualsiasi momento, ed ecco che va affogato e rovesciato, perché “Acqua Passata¿” diventi un’affermazione”.

Dottoressa Monterosso, qual è il bilancio di questi primi 18 mesi da direttrice della fondazione?

“Siamo una fondazione che si auto sostenta. E’ il modello in cui crediamo e ci piace molto. Siamo agevolati da un sito meraviglioso, ma che necessita di tanta cura, di tanta sorveglianza, di tanto lavoro per rendere qualitativamente elevata la fruizione dei visitatori. Ogni giorno guardiamo i dati e se ce n’è qualcuno che non ci convince corriamo subito ai ripari, come fa una famiglia che si sostenta o un’azienda per andare avanti. Come le ho già detto, il nostro obiettivo è far cogliere al visitatore i significati dietro la bellezza. Credo che in parte siamo riusciti a farlo. Ma occorre una grande fatica, e il nostro lavoro è appena cominciato”.