Nel passato di Marcello Caruso, fresco commissario regionale di Forza Italia, c’è tanta gavetta. E, al di là del sottogoverno, persino un’esperienza da coordinatore provinciale di Italia Viva a Palermo, quando sembrava che il partito di Matteo Renzi, specie al Comune, riuscisse a mettere le marce alte. Il ritorno di fiamma con Forza Italia, ma soprattutto la scalata di Renato Schifani al trono d’Orleans, hanno aperto per lui prospettive inimmaginabili fino a qualche mese fa. Addirittura l’eredità di Gianfranco Micciché alla guida di un partito che per quasi un trentennio – tranne brevissime parentesi – non ha conosciuto altro dio all’infuori di lui. Il vicerè. Oggi Caruso è lì grazie ai propri meriti, ma (sospettiamo) anche grazie all’enorme contrappeso che nelle vicende interne di FI ha avuto e continuerà ad avere il presidente della Regione. Uno che ha ottenuto da La Russa prima, e da Berlusconi poi, il riconoscimento del proprio prestigio e del proprio sacrificio (quello di scendere in campo nonostante l’età e gli interessi amministrativi un po’ vaghi).

Già. Caruso è lì, alla guida di Forza Italia, per nome e per conto di Renato Schifani. Che in questi mesi le ha provate tutte, riuscendoci, per scalzare il proprio rivale interno (Micciché) dai principali ruoli di potere, veri e potenziali. La presidenza dell’Ars, la presidenza della Regione, l’assessorato alla Sanità, e persino la guida del partito. Ce l’ha fatta Schifani, e con lui Caruso, che oltre a tenere l’agenda dei suoi appuntamenti, è diventato in pochissimi giorni il capo della sua segreteria particolare e l’uomo di punta dei berluscones. Per nome e per conto del suo mentore, potrà gestire e giostrare alcune decisioni fondamentali da qui in avanti: in primis, la composizione delle liste nei vari comuni al voto, come Catania e Siracusa (dove la matassa da sbrogliare è intricata). Avrà Caruso il potere o la volontà di autodeterminarsi? Certo che no… Il suo è un interregno e come tale va gestito: le scelte si avallano, o al massimo, si condividono. Schifani resta il primus inter pares.

Ma la Sicilia, volendo, è la terra dei prestanome. Anche nella giunta del presidente, ove i requisiti d’ammissione erano stringenti e uguali per tutti – essere deputati eletti e, possibilmente, un po’ competenti – si sono insinuate delle eccezioni che non fanno gridare allo scandalo, ma confermano da un lato la vacuità delle dichiarazioni di principio; dall’altro le posizioni supine nei confronti di entità romane e superiori. Le uniche, a dirla tutta, in grado di garantire la serena sopravvivenza dell’esecutivo (anche di fronte ai venti di tempesta di questo avvio legislatura). Uno di quelli calati dall’alto, che nelle ultime settimane ha limitato per ovvi motivi di esporsi troppo, è l’assessore Francesco Paolo Scarpinato. All’indomani dello scandalo di Cannes, e dei 3,7 milioni assegnati con troppa leggerezza a una società lussemburghese, è stato declassato dal Turismo ai Beni culturali, comunque preservato da FdI che l’aveva imposto a Schifani nonostante un accenno di resistenza.

Scarpinato gode di un’ampia protezione. Quella di Manlio Messina e di Francesco Lollobrigida: il primo ossessionato dalla gestione dei fondi del Turismo, che aveva amministrato più o meno allegramente nei cinque anni del governo Musumeci, tessendo una rete di contatti privilegiata e invalicabile; il secondo, pure. Solo con la prospettiva più ampia del “cognato d’Italia”, che per il suo partito costruisce etichette ad hoc: ad esempio che una materia strategica come il Turismo possa essere gestita soltanto dai migliori. E i migliori sono loro, i patrioti. Ci si è messo anche Ignazio La Russa per la verità: nei giorni di crisi, con Schifani sferzato a destra e a manca, è stato il presidente del Senato a convenire per uno scambio di deleghe (con Elvira Amata) che non intaccasse più di tanto gli equilibri acquisiti; e soprattutto non indisponesse Giorgia e i suoi uomini di punta. Anche se l’apporto di Scarpinato finora è palliduccio. Come quello di Elena Pagana, moglie di Ruggero Razza, ex potente assessore alla Salute nonché braccio destro di Nello Musumeci.

Così come le “colpe” dei padri è ingiusto che ricadano sui figli, anche l’operato dei mariti non può intaccare il giudizio su quello delle mogli. Ma ogni tentativo di spiegare e giustificare l’ingresso in giunta di Pagana, al netto delle parentele e delle nuove affinità politiche, fatica ad attecchire. La Pagana ha rimediato una figuraccia nella sua Enna alle ultime elezioni (poco più di 1.500 voti); ha una sola legislatura alle spalle e tre cambi di casacca (dai Cinque Stelle ad Attiva Sicilia e infine Fratelli d’Italia). Nessuna competenza specifica che giustifichi la sua nomina ad assessore al Territorio e Ambiente. Più che altro, nella percezione di tanti addetti ai lavori, serpeggia la convinzione che sia un modo, per Razza, di avere occhi e orecchie all’interno di una giunta da cui è stato escluso. E per Musumeci di continuare ad avere un peso rilevante all’interno di un governo che ha sposato la tesi della continuità amministrativa (e dei comportamenti) e che, neppure nella formazione, si discosta più di tanto dal suo.

Un governo diretto da Renato Schifani e che annovera tra i suoi membri più illustri un altro assessore sui generis: si tratta di Giovanna Volo cioè la “leva” per escludere Gianfranco Micciché da qualsiasi pretesa o contrattazione. Un tecnico che potesse andar bene anche a Forza Italia, considerato il legame fra l’ex commissario azzurro e il giornalista Paolo Liguori, cognato dell’assessore Volo (è il marito della sorella Grazia, amica di famiglia dei Micciché). Non ha funzionato per intenerire il vicerè berlusconiano, né per migliorare la tragica situazione della sanità siciliana, che oggi annaspa dietro mille questioni: il rapporto coi privati convenzionati, le proroghe mancate ai precari Covid, i Pronto soccorso affollati, le liste d’attesa infinite. L’esperimento di un “esterno”, che potesse garantire pieno controllo al presidente della Regione anche su questa branca delicatissima, si è rivelato un fallimento. E persino la difesa d’ufficio della Volo, di fronte ai rimbrotti di Fratelli d’Italia, potrebbe cadere molto presto, come un castello di carta, aprendo il primo spiraglio per un rimpasto.

Qualcuno solleva l’obiezione che anche gli assessori della DC Nuova, soprattutto Nuccia Albano (Lavoro e Famiglia) siano la copertura per un pieno ritorno in campo, anche sotto il profilo operativo, di Totò Cuffaro. Che per altro è stato riabilitato di recente dal Tribunale di Sorveglianza di Palermo, che ha cancellato la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Lui nega: “Non credo che mi sia interdetto frequentare un assessorato e, di certo, in modo sporadico, e, per di più, diretto da un assessore della Democrazia Cristiana”. Assieme a Marcello dell’Utri, un altro condannato d’eccezione, Cuffaro era stato al centro della polemica anche alla vigilia delle Regionali e delle Amministrative di Palermo, ancor prima che il suo partito ottenesse un riconoscimento nelle urne. Una questione morale tira l’altra.