Debbo confessare che sul Ponte non ho mai avuto una posizione chiara e definita, oscillando tra un rifiuto aprioristico che mi ha conciliato con la forza politica nella quale milito e l’apprezzamento di una proposta che, in fondo in fondo, non mi è mai parsa totalmente strampalata.

Non ho potuto del tutto evitare lo scontro che, per decenni, ha caratterizzato una sorta di gioco insulso che non si è concluso né con la posa della prima pietra dell’opera, né con il suo abbandono. Da decenni il pendolo del confronto, piuttosto che su aspetti morfologici, su quelli relativi al rischio sismico e alle mutazioni ambientali, ha oscillato tra scelte ideologiche contrastanti, tra questioni di fede diversa, tra tifoserie contrapposte. Sul Ponte si sono misurate e in qualche modo continuano a farlo, a sinistra quanti, appena sentono parlare di opere pubbliche, gridano allo scandalo e invocano la salvaguardia del territorio, e a destra quanti vorrebbero continuare a buttare giù colate di cemento in nome del profitto, del lavoro e dello sviluppo.

Dentro questo scontro è rimasto poco spazio per conciliare la crescita economica, che non può prescindere dalle infrastrutture e la cementificazione devastante, che spesso ha avuto la meglio per un rapporto di forza impari e perché aiutata involontariamente dalla rigidità che indebolisce le posizioni di principio. Il Ponte, più di ogni altra grande opera, ha sempre avuto un valore simbolico perché collega, favorisce il transito di persone, lo scambio di merci, e, nella storia dell’umanità, ha rotto l’isolamento, ha consentito il rapporto e la conoscenza di chi sta su rive opposte, ha determinato l’abbandono del pregiudizio e dell’ostilità.

Più banalmente il Ponte sullo Stretto è diventato un astratto terreno di scontro, quasi un elemento identitario, in modo più accentuato a sinistra, dove le scelte talora vengono chiaramente colorate di ideologia, ammantate di principi difesi con un accanimento inversamente proporzionale all’importanza della questione in sé, un problema che la destra non si pone. Chi ha militato nel campo della sinistra è stato contrario alla costruzione del Ponte, con la medesima coerenza e fermezza con la quale, per Giorgio Gaber, chi stava a sinistra usava la doccia, identificando chi era a destra con l’uso della vasca da bagno. Sono stati utilizzati argomenti fondati che hanno finito, tuttavia, per diventare dei veri e propri alibi. L’enorme flusso di denaro che si mobiliterebbe per la costruzione del Ponte, si sostiene, in una certa misura, finirebbe in mano alla mafia. Un pericolo reale che nessuno può sottovalutare e che riguarda le grandi infrastrutture e le opere pubbliche e naturalmente riguarderà anche quelle che verranno realizzate nel Sud e in Sicilia con i fondi del Piano nazionale di ripresa e di resilienza. Per sfuggire a questo rischio, nessuno immagina che la via giusta sia quella di rinunciare agli investimenti. Che poi, a pensarci bene, se la mafia calabrese e quella siciliana avessero puntato solo o prevalentemente sulle grandi costruzioni che da decenni non si fanno, già da tempo si sarebbero estinte per inedia.

L’altro argomento forte per dire no al Ponte è stato il “benaltrismo”, un potente strumento utilizzato per evitare di affrontare le questioni vere, quelle sul tavolo della discussione e della scelta. E chi può dire che non sia anch’esso un argomento fondato? Prima e più del Ponte, occorre intervenire sulle strade, sulle ferrovie, sui collegamenti secondari. Che senso avrebbe se, per raggiungerlo, da Agrigento o da Trapani, con l’attuale sistema viario, occorressero ore ed ore? Come si può pensare ad un collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria, se il treno da Palermo a Catania impiega quattro ore e se chi scrive, per raggiungere il suo paese, deve affrontare strade provinciali ridotte a vere e proprie trazzere? Ineccepibile l’obiezione, se non si dovesse constatare che, dopo decenni di proclamato benaltrismo, non c’è il Ponte, le ferrovie rimangono ad un solo binario, non si è costruito un chilometro di autostrada e le strade provinciali, già dissestate, sono del tutto abbandonate, anche per la “felice” scelta di abolire le province. Eppure vi fu un momento nel quale ho pensato che il benaltrismo fosse passato da facile fuga dalla realtà al terreno delle scelte concrete e che così mi si desse un elemento per supportare la mia incerta contrarietà al Ponte. Capitò quando Prodi decise che non si dovesse fare e stanziò per la Sicilia e per la Calabria un miliardo seicentoquaranta milioni di euro, che, nel triennio 2007, 2008 e 2009 avrebbero dovuto essere spesi per migliorare e incrementare la rete viaria secondaria. Finalmente qualcosa di preciso al posto di un improbabile e mitico Ponte.

A ciascuna provincia dell’Isola, al termine di duri scontri politici, furono assegnate delle somme per progettare e realizzare gli interventi. E così, da sindaco di Caltabellotta, proposi alla Amministrazione provinciale di Agrigento di completare un tratto viario che avrebbe collegato il mio paese con Palermo in un tempo inferiore rispetto a quello impiegato con la consueta strada di comunicazione. Il procedimento appena iniziato fu bloccato da Berlusconi che, vincendo le elezioni, ripropose il Ponte e revocò i finanziamenti. Ricominciava il racconto di un mito iniziato nel 1840, quando Ferdinando II di Borbone incaricò un gruppo di ingegneri e di architetti di studiare la fattibilità di un collegamento stabile tra le sue “due Sicilie”. Gli risposero che era realizzabile, ma il re scoprì di non avere i soldi per mettere mano all’opera. Nel 1860 il governo Ricasoli riprese l’idea, che tale rimase anche dopo che, nel 1955, la Regione siciliana riavviò i motori, commissionando al Politecnico di Milano uno studio geofisico per la costruzione del Ponte. Ma se dovessimo raccontare tutta la storia, riempiremmo più volumi di quelli che Graves dedicò ai miti greci.

E forse la favola continua. Ma con importanti elementi nuovi, che servono, almeno in parte, a rasserenare chi scrive e gli consentono di conciliare la permanenza nella sinistra riformista con una certa apertura al Ponte, le condizioni tecniche risultando rassicuranti.

Non mi baso sulla straordinaria e imprevedibile giravolta del vice ministro Cancelleri, favorevole all’infrastruttura, ché Cancelleri non mi aiuta perché, pare, continua a non essere né di sinistra né di destra. Semmai mi conforta e mi affranca la posizione favorevole al Ponte dei deputati democratici di Sicilia e di Calabria, che, com’era prevedibile, sono stati accusati dai Verdi di volere ciò che propone Berlusconi, ché, per ciò stesso che lo propone lui, di opera del demonio deve trattarsi. Rassicurato, malgrado la consapevolezza del persistere dei seri rischi di natura ideologica che corro e degli obiettivi problemi morfologici e tecnici, mi riesce meno difficile che nel recente passato guardare con minore diffidenza ad un’opera che può concorrere a ridurre l’isolamento dell’Isola – il bisticcio delle parole è inevitabile. Il nome con cui chiamarlo mi lascia ancora dubbi. Musumeci vorrebbe intitolarlo ad Ulisse, che se ci fosse stato il Ponte, quando passò tra Scilla e Cariddi, non avrebbe avuto bisogno di tapparsi le orecchie e di farsi legare all’albero della nave per sfuggire al richiamo delle sirene. Io, che non ho alcuna possibilità di competere con il presidente della Regione, preferirei intestarlo a Colapesce. Sarebbe un modo per ringraziarlo della fatica di reggere uno dei tre angoli della Sicilia e del maggior peso che sarebbe costretto a sopportare con la costruzione del Ponte.

Comunque, Ulisse o Colapesce, sempre di miti si tratta e il Ponte, penso che, dopo 181 anni dalla iniziale, brillante idea del re Borbone, per molto tempo ancora, rimarrà nel territorio del mito.