Chi a inizio aprile chiedeva l’applicazione dell’articolo 31 dello Statuto, per mettersi a capo dell’esercito in situazioni d’emergenza (ad esempio, la pandemia), è lo stesso presidente che oggi supplica Roma di lasciare “socchiuso”, e salvaguardare le imprese siciliane che il suo stesso governo, col fallimento acclarato del click day, fa galleggiare nell’incertezza. Imprese, che in caso di nuovi lockdown, o coprifuoco accentuati, potrebbero non ripartire più. E mentre il virus è rimasto uguale – infido e, per fortuna, poco letale – Nello Musumeci nell’arco di pochi mesi ha stravolto la sua natura di “sceriffo”. Almeno di fronte al Covid. E’ il frutto di una strategia consolidata: quella dell’ammuina. Darsi da fare sì, ma mischiando le carte e il più delle volte senza alcun costrutto. Solo per il gusto, e il dovere, di essere protagonista di una grande storia che appartiene a tutti. In primis ai governatori.

Rispetto all’evoluzione della curva epidemiologica, però, Musumeci ha innescato la retromarcia: non è più un tornado, pronto a tutto per salvaguardare la salute pubblica; somiglia, piuttosto, a una brezza estiva per nulla fastidiosa, che ti accarezza e genera sollievo. Se prima il mantra era “chiudo tutto” – c’è riuscito persino coi supermercati di domenica – oggi il presidente si affretta a smentire l’emergenza – nella percezione e nei numeri – e, dopo aver fatto fuoco e fiamme, suggerisce che eventuali nuove restrizioni andranno “concordate con il governo nazionale”. Quello di Giuseppe Conte e Luciana Lamorgese per intenderci. Che fino a qualche settimana fa era ostaggio del colonnello Nello: “Il governo spara l’ennesimo colpo alla nuca della Sicilia che tenta di rialzarsi”, era stata una delle frasi più forti pronunciate dal presidente della Regione durante la crisi di Lampedusa. Prima di svoltare e diventare l’uomo della pace.

Ma andiamo per gradi. L’ordinanza provocatoria, e priva di sussistenza giuridica, con cui Musumeci avrebbe voluto chiudere i porti siciliani e sgomberare gli hotspot, è datata 24 agosto. Un atto di sfida bell’e buono, che costrinse Palazzo Chigi a impugnare la norma e restituire la decisione al Tar, che ne sospese gli effetti. A memoria, è stata l’ultima prova muscolare di Musumeci nei confronti di Roma. Un tentativo – strenuo e mal riuscito – di bucare lo schermo a destra, e ripagare Matteo Salvini per la lunga attesa maturata in seguito alla proposta dell’ex Ministro di federare la Lega e Diventerà Bellissima. Per qualche ora Musumeci riconquistò la fiducia dei “compagni” del Carroccio, ma la spinta si esaurì in fretta. Lo spazio di una visita a Roma, convocato dal presidente del Consiglio, in cui Musumeci allontanò bruscamente dal piazzale di Palazzo Chigi i leghisti corsi a manifestare. Comportandosi da istituzione responsabile, e non da tifoso.

La sua manovra, nell’immediato, non ha portato a granché. Complice il maltempo e l’arrivo delle navi quarantena, però, Lampedusa ha iniziato un po’ per volta a svuotarsi. Ma i rapporti con la Lega sono rimasti logori (sono andati deteriorandosi alla vigilia delle Amministrative, dove l’alleanza non si è quasi mai ricomposta). Quelli con Conte, a stento, cordiali. Andava peggio nei mesi scorsi, quando il tessuto connettivo della Conferenza Stato-Regioni ha rischiato di tramutarsi in un campo minato. Complice la frenesia del lockdown, una situazione nuova e del tutto sconosciuta anche a chi, come Musumeci, poteva fregiarsi di un’infinita esperienza politica e di un’ottima strategia di problem solving. Macché. La rincorsa al virus, che ha tirato dentro il governo quasi ogni giorno – sulle aperture, sulle mascherine, sui ventilatori polmonari, sulla scuola -, è stata caotica e contraddittoria.

Come nel caso della chiusura dello Stretto. Una domenica sera, era già ora di nanna, Musumeci tuonò sui social per gli arrivi scalmanati da Villa San Giovanni (gli stessi che fecero saltare sulla sedia il sindaco di Messina, Cateno De Luca). Era la notte fra il 22 e il 23 marzo, circa mezzanotte e mezza: “Mi segnalano appena adesso che a Messina stanno sbarcando dalla Calabria molte persone non autorizzate. C’è un decreto del ministro delle Infrastrutture e del ministro della Salute che lo impedisce. Il governo nazionale intervenga perché noi siciliani non siamo carne da macello”. Li prese per “irresponsabili”, ma non pronunciò una parola quando il Viminale disse che i transiti, rispetto alla settimana precedente, erano più che dimezzati. Musumeci, per la cronaca, anche dopo il 4 maggio vietò per qualche giorno che i pendolari tornassero a casa in nave. Le corse dei traghetti erano limitate, gli aerei pochi e pienissimi, e in tanti furono costretti a trattenersi nelle regioni del Nord.

Il Musumeci furioso, tra le numerose decisioni assunte durante il blocco, prolungò oltremodo il divieto di passeggiatina sotto casa con i bambini (il ministro Roberto Speranza aveva concesso una deroga ai genitori dopo settimane di “reclusione”) e  la chiusura dei supermercati e generi alimentari nella giornata di domenica. Tanto che i palermitani, pur di procurarsi le zeppole di San Giuseppe, minacciavano di farlo al “mercato nero” degli amici pasticcieri. “Bisogna evitare inutili e pericolosi assembramenti”, fu la giustificazione addotta. Peccato che i pubblici esercizi, almeno la domenica, contassero di recuperare gli incassi vanificati dal lockdown, che concesse margini di manovra solo sul delivery e, in parte, sull’asporto.

Oggi, sebbene Musumeci, predichi cautela, non cede alla tentazione (anche se il comitato tecnico scientifico potrebbe reindirizzarlo verso il rigore): “Provvedimenti restrittivi o di chiusura andrebbero concordati con il Governo centrale, come quello degli ingressi bloccati in Sicilia. Noi abbiamo chiuso l’Isola impedendo l’accessibilità al 92 per cento nei mesi drammatici della prima fase e non escludiamo di poterlo fare anche con altre misure nei prossimi giorni”. E ancora: “In un tessuto economico come quello siciliano ogni attività che può lavorare costituisce un grande sostegno che si dà all’economia”. “Ma – ammonisce – se dovesse essere necessario non ci penseremo due volte a chiudere le attività, sperando che il governo centrale possa consentire loro di potere superare questo periodo”. Il governo centrale. Perché quello regionale ha già dimostrato di che pasta è fatto. Il Pil siciliano ha subito un crollo di oltre 5 punti (e non è finita); i posti di lavoro saltati nel secondo trimestre del 2020 sono oltre 75 mila: ma la Finanziaria, al netto della misura sul bollo auto e (da ieri) sui voucher per i turisti, è bloccata da sei mesi.

Oggi Musumeci è un bravo scolaro che non tocca praticamente nulla degli ultimi Dpcm – li recepisce e basta nelle sue ordinanze – dopo aver criticato in passato l’impostazione tout court nella gestione della crisi. E chiesto al premier di autorizzare le Regioni ad “adottare misure compatibili con la situazione epidemica locale”. Adesso il presidente è sicuro del fatto proprio. E’ felice per l’esito del bando sulla mega campagna di screening, che ha portato in dote alla Regione quasi 7 mila volontari per effettuare i tamponi. E non si preoccupa per la tenuta più complessiva della sanità, laddove il numero dei ricoveri in terapia intensiva – assai elevato – rischia di mandare in tilt l’intera rete. A coprirgli le spalle c’è un corposo investimento da 128 milioni che gli permetterà di allargare i reparti di terapia intensiva e sub-intensiva in 31 ospedali siciliani, compresi quelli “dedicati”. I cosiddetti Covid Hospital. All’improvviso il governatore è diventato meno apprensivo.

Meriterebbe una riflessione a parte la questione sul trasporto pubblico: Musumeci aprì al 100% della capienza, ignorando che il contatto a bordo degli autobus sarebbe stato un facile mezzo di contagio. Solo di recente, in base alle ultime direttive nazionali, e dopo l’urlo concitato di quelli del Pd (durato mesi), si è convinto ad abbassare la soglia all’80%. Per salvare capre e cavoli. E adesso potrebbe scendere al 50%, viste le insistenze del Cts.

Alle giravolte del presidente, comunque, siamo abituati. Per andare sul classico, non si può non ripensare alla dannata giostra delle società partecipate. Poche settimane dopo l’insediamento, in una pubblica invettiva rivolta al parlamento su Facebook, disse che sarebbe andato a casa se non gli avessero consentito di fare le riforme. Una di esse prevedeva la soppressione dell’Esa, l’ente di sviluppo agricolo. Sapete com’è andata? Oggi, a capo del carrozzone, c’è Giuseppe Catania, il presidente dell’assemblea regionale di Diventerà Bellissima. Che farà risorgere a nuova vita – ne siamo certi – un istituto superato dalla decenza e della storia. Come tanti ce ne sono in giro: da Riscossione Sicilia a Sicilia Digitale, per citare i più clamorosi.

Ma un altro caso, di questi giorni, riguarda il rapporto con i dipendenti regionali. Gliene ha dette di ogni: “grattapancisti”, “inutili” etc etc. E nel frattempo, da datore di lavoro previgente, li ha premiati, come se niente fosse, con valutazioni d’eccellenza (e scatto del salario accessorio) a fine anno. Ora, però, si è spinto oltre: vuole riclassificarli. Cioè accorpare un’immensa platea di 13 mila lavoratori in tre fasce (anziché quattro), procedendo con le promozioni di massa e la redistribuzione negli uffici. “Dopo avere reperito le necessarie risorse finanziarie, è stato avviato il percorso che tende a premiare il merito, consentendo così un adeguato utilizzo dei dipendenti in ragione del proprio titolo di studio e delle professionalità acquisite”. Sarà pure un modo per motivarli. Sì, ma un concorso quando?