Una battaglia sbagliata. Una sconfitta certa. Col senno del poi risulta quanto sia stato azzardato ricorrere al referendum su argomenti pure importanti ma non tali da suscitare una mobilitazione vasta e un interesse condiviso, trasformandoli peraltro in uno scontro politico, nel possibile avviso di sfratto a Meloni e alla sua maggioranza.

Azzardato anche perché era del tutto evidente che il ricorso a quell’istituto, tranne pochissime eccezioni, negli ultimi anni non ha avuto successo.

Avventato ancor più dopo la esclusione dal voto della proposta di autonomia differenziata, del tema che sarebbe stato immediatamente percepito di grande rilevanza per l’unità del Paese e avrebbe messo in difficoltà la destra.

La sconfitta è evidente ed ogni tentativo di velarla, di provare ad attenuarne il peso è pretestuoso ed inefficace. Certo hanno votato quattordici milioni di cittadini, che non sono pochi e che potrebbero rappresentare la base per il confronto elettorale al termine di questa legislatura. A condizione, è evidente, che i partiti dell’opposizione siano in grado di tenere ed alimentare quel consenso al sì con la loro unità e con il peso degli argomenti propri per una opposizione efficace e comprensibile in Parlamento e nel Paese.

Una sconfitta, quale che sia l’entità della stessa, non è mai una premessa utile per ripartire. E i voti non sono cedole da custodire in cassaforte per rimetterle sul mercato al momento giusto.

Si potranno pure ritrovare se si allargherà l’orizzonte delle proposte da offrire al Paese, se non saranno solo quelle, anche rilevanti, ma ideologicamente marcate, del referendum. Molte, se non tutte, orientate a suscitare l’interesse di alcuni settori del Paese, di quelli politicizzati e collocati a sinistra. Una di queste, quella sul cosiddetto jobs act, a molti è risultata poco chiara e del tutto inattuale. È sembrata più una resa dei conti postuma all’interno del Partito democratico e una sorta di rivalsa di Landini, da sempre contrario a quella scelta renziana, piuttosto che un’esigenza concreta. Che se fosse passata, avrebbe poi creato un vuoto legislativo e dato a Meloni la possibilità di colmarlo con scelte che non sarebbero state sicuramente più innovative di quelle compiute parecchi anni addietro da Renzi.

Dovrebbe far riflettere il numero dei no alla riduzione dei tempi per ottenere la cittadinanza. Dovrebbe far prendere consapevolezza che quel tema di civiltà risulta ostico anche ad una parte degli elettori di sinistra e che su di esso le forze referendarie non hanno una posizione unitaria né chiaramente individuabile. Le questioni legate all’immigrazione rimangono divisive e molto difficili da affrontare anche nei loro aspetti più ovvi, come quello di riconoscere italiani a tutti gli effetti coloro che qui sono nati e hanno i titoli per esserlo.

Landini, il vero leader di questa battaglia e naturalmente il maggiore perdente, ha colmato un vuoto, il vuoto di leadership, dando la sensazione di assumere un ruolo propriamente politico, di federatore, di riferimento delle forze di centro-sinistra. Il segretario della CGIL peraltro ha così accentuato la frattura con le altre organizzazioni sindacali, segnatamente con la CISL, rendendo più debole l’opposizione sociale e la rappresentanza degli interessi dei lavoratori.

Se la sconfitta ha riguardato l’intero Paese, ancora più clamorosa è risultata in Sicilia. A fronte del 30% della media nazionale, nella nostra Isola ha votato poco più del 23%. Le ragioni dovranno essere approfondite a partire dalla disaffezione al voto che si è manifestata da noi in modo particolare nelle ultime prove elettorali.

Ci sono dei dati che risaltano, intanto. Il primo riguarda la difficoltà di far capire i quesiti referendari a chi vive in una terra nella quale, più che la qualità, tema sicuramente importante, manca il lavoro e i giovani in numero sempre maggiore sono costretti a cercarlo altrove.

Qui il sindacato poi, a cominciare dalla CGIL, è debole, per la fragilità della presenza industriale, per la carenza e la aleatorietà del lavoro. Landini ha comunque supplito, forse da noi ancor più che altrove, alla debolezza dei partiti.  Da quello democratico, nei mesi precedenti al voto assorbito da una vicenda interna incomprensibile ed assurda, da un finto congresso che, anziché coinvolgere gli iscritti e i simpatizzanti e indurli a votare e ad essere promotori del voto, si è trasformato in un paradossale scontro interno e ha spaccato il partito.

Nelle settimane passate si sono succeduti alcuni dei dirigenti nazionali vicini a Schlein e nessuno di loro, lei inclusa, è venuto per sostenere e spiegare i quesiti referendari. Tutti a sostenere Barbagallo, a garantirgli la candidatura unica, a celebrare un congresso posticcio.

E Barbagallo ha confermato la propria storia, continuando a percorrere la strada del perdente. E poi, in modo consolatorio, a sostenere che i novecentomila voti ottenuti dal sì potrebbero essere una buona base di partenza.

Per quali obiettivi? Quando il rapporto di forze con il centro-destra è sempre più squilibrato, il partito sempre più irrilevante, l’opposizione a Schifani, nel suo insieme, ancor più evanescente?

Anche sulla base dei dati referendari il congresso è stato una sorta di deterrente al voto, piuttosto che una promozione.

Ora, per tenere ed incrementare i novecentomila voti in vista delle prossime elezioni regionali, non risulterebbe banalmente opportuno intanto risanare la frattura e creare così le condizioni per fare del Partito democratico il pilastro essenziale della alternativa alla destra?

Delle altre forze, come di quest’ultimo, del resto, non vi è stata una prova apprezzabile e l’esito finale ne dà pienamente conto.

Probabilmente Cinque stelle e Sinistra italiana si saranno impegnati. Ma tutti insieme si sono fermati ad una soglia di sette punti inferiore alla media nazionale.