Smettetela di pensare che la Sicilia possa diventare grande o bellissima (chissà, magari un giorno). Quel momento, in realtà, non è ancora arrivato. A maggior ragione adesso, che siamo reduci da una sentenza spietata della Corte dei Conti e della grazia ricevuta dal governo nazionale, che ci consente di spalmare il disavanzo in dieci anni – dovremo essere, però, bravi e meritevoli – senza dover procedere a nuovi tagli. Inutile illudere i siciliani coi buoni propositi che rischiano di andare in fumo da subito (dalla prossima Legge di Bilancio, per intenderci). Bisogna commutare la felicità – non rientra nei canoni della nostra esistenza – con la normalità. E a tal proposito, il presidente della Regione Nello Musumeci è stato sin troppo pragmatico: “E’ da trent’anni che i politici fanno sognare i siciliani. Io non lo farò”. Una dichiarazione, ribadita più volte, che si contrappone al vecchio detto “sognare non costa nulla”, e che si presta a un paio di interpretazioni: da un lato la mancanza di ambizione, dall’altro un sincero contatto con la realtà. Musumeci e il suo governo, in quasi due anni di legislatura, li hanno dimostrati entrambi.

Nel 2020, però, serve uno scatto d’orgoglio. Non solo del presidente e della sua giunta, che vivono condizionati da alcune presenze scomode e dall’eredità di un passato infausto, ma da parte della politica in generale. Nulla di trascendentale – in Sicilia nessuno è attrezzato per i miracoli – ma dei segnali che le restituiscano, partendo dal governo della Regione, quella forma di legittimazione popolare che negli ultimi anni è svanita poco per volta, forse in modo impercettibile. E allora ecco alcune delle risposte che ci si aspetta dalla politica, e che la politica dovrebbe pretendere da se stessa.

Tra le prime operazioni del nuovo anno richieste a Musumeci, c’è quella che per troppo tempo è stata lasciata in sospeso: la nomina del nuovo assessore ai Beni Culturali. Un ruolo apicale dell’amministrazione regionale siciliana, se è vero come è vero che la valorizzazione dei Beni culturali ambisce a diventare il traino della produzione turistica dell’Isola. Dopo la morte di Sebastiano Tusa, che ha perso la vita nel marzo scorso a seguito di un incidente aereo, il presidente della Regione ha assorbito l’interim, svolgendo negli ultimi nove mesi la mansione di assessore.

Il lungo tira e molla sui papabili sostituti di Tusa, per cui – si diceva – il governatore aveva avuto carta bianca da parte degli alleati, non ha prodotto gli esiti sperati: così Patrizia Li Vigni, moglie del compianto archeologo, è finita alla Soprintendenza del Mare, mentre tutti gli altri nomi (dalla sovrintendente di Catania Rosalba Panvini, passando per l’ex finiano e collaboratore di Tusa, Carmelo Briguglio) non si sono rivelati all’altezza. Musumeci a lungo ha ricercato un tecnico, ma alla fine ha preferito confermare un politico: se stesso. L’assessore ai Beni culturali non rientra nelle normali dinamiche di una coalizione e nella rappresentazione dei suoi partiti: è un qualcosa di più alto che va affrontato subito. Per dare alla Sicilia una guida capace e una linea certa.

Per una questione di coerenza, ma anche per la rinnovata struttura della maggioranza che sostiene il presidente della Regione, sarebbe utile inoltre un’operazione di rimpasto. L’estate scorsa, a causa della frattura tra Gaetano Armao, assessore all’Economia, e il gruppo di Forza Italia, sembrava giunta l’ora. Ma il commissario regionale, Gianfranco Micciché, si è fermato di fronte ai dubbi di Berlusconi. Armao era una sua indicazione e la compagna dell’avvocato, Giusi Bartolozzi, gioca nel gruppo forzista alla Camera dei Deputati. Meglio lasciare il mondo per com’è. Per ora. Nel toto-sostituti, fin qui più immaginario che sostanziale, è entrato di prepotenza il nome di Riccardo Savona, presidente della commissione Bilancio. Sempre all’interno di Forza Italia, la sponda siracusana del partito, capeggiata da Stefania Prestigiacomo, non ha mai celato il suo fastidio per la presenza di Edy Bandiera all’Agricoltura: non si sente più rappresentata.

In caso di rimescolamento, anche il gruppo di “Ora Sicilia”, guidato da Luigi Genovese, potrebbe chiedere di essere rappresentato in giunta. Costituisce il naturale prolungamento di Diventerà Bellissima, che oltre a Musumeci esprime un solo assessore: Ruggero Razza. Ed è cresciuto di numero anche il gruppo di Fratelli d’Italia, passato da tre a cinque onorevoli in un paio d’anni. E con un solo assessore al seguito (contro i due dei Popolari Autonomisti, che hanno gli stessi deputati). Inoltre, Salvini ha annunciato la nascita del primo gruppo della Lega all’Ars. Inizialmente ne faranno parte tre deputati, e ancora una volta gli equilibri potrebbero cambiare. Musumeci, anche prima di Natale, è tornato a parlare di rimpasto. E ha raffreddato gli animi: “Il rimpasto non si fa perché lo dice il calendario, ma perché lo detta il buonsenso. Abbiamo ritenuto che il rimpasto nella scorsa estate non fosse necessario. A maggio o a giugno, quando saremo a metà mandato, è probabile che faremo qualche piccolo ritocco”. Un ritocchino al motore. Già sentita.

Tra le altre risposte che il nuovo anno potrà fornire, ce n’è una di strettissima attualità. Riguarda il futuro di Nello Musumeci e di Diventerà Bellissima. In caso di elezioni politiche anticipate, con chi andrà il governatore per strappare un seggio o due in Parlamento? La strategia fin cui è nebulosa, anche se più volte gli uomini fidati del presidente hanno spiegato che l’obiettivo più importante è governare la Sicilia, e il resto verrà da sé. Un’ipotesi più che credibile fino alla scorsa primavera, quando Musumeci decise di rimanere in tribuna mentre tutti correvano per un posticino a Bruxelles.

Ma negli ultimi giorni qualcosa si è mosso: l’incontro con Salvini, a Roma (e, solo di recente, con Candiani a Catania) ha rilanciato l’ipotesi di un’alleanza con la Lega: la formula è tutta da trovare (si tratterebbe di una federazione “elettorale”), ma l’intento è chiaro: non rimanere più isolati. Musumeci chiede una sponda a un partito nazionale perché i suoi glielo chiedono, e perché anche lui vorrebbe garantirsi un futuro solido: “Se realizzerò il 60% del mio programma elettorale – ha detto intervenendo a Casa Minutella – chi potrebbe impedirmi di andare a inaugurare un’opera che ho provveduto a finanziare?”. Il presidente sta pensando di ricandidarsi.  Salvini, fin qui, è l’unico “libero” sul mercato, considerato lo strappo con la Meloni, ma anche quello più difficile da convincere. Candiani, il commissario leghista nell’Isola, non vede di buon occhio transfughi e approfittatori, così l’interesse per la trattativa è tiepido. Se ne riparlerà. Più sfumata l’ipotesi di stringere accordi con Giovanni Toti: il suo nuovo movimento – Cambiamo – sorto dall’ala malpancista di Forza Italia, fatica a scollinare l’1% nei sondaggi.

Non solo Diventerà Bellissima. Nell’anno che verrà anche il Partito Democratico siciliano ha assoluto bisogno di ritrovare una fisionomia. Il 2018 era stato l’anno delle illusioni, con la celebrazione di un congresso “monco” e l’elezione a segretario di Faraone; il 2019 è stato, invece, quello della tabula rasa. La commissione nazionale di garanzia ha azzerato tutto e convinto l’ex segretario a strappare la tessera (prima di aderire a Italia Viva). Al suo posto è arrivato il commissario Losacco – troppo facile l’accostamento a Lo Gatto, il “collega” commissario interpretato da Lino Banfi in un film ambientato a Favignana negli anni ‘80 – che non è ancora riuscito a dare un imprinting al partito. Anzi, la fase della sua reggenza si è contraddistinta per lo strappo dei renziani, che hanno portato via un paio di parlamentari regionali e molti consiglieri a Palermo, e per il silenzio di Leoluca Orlando, che sembra aver smarrito la tessera.

Il Pd raffazzonato resta alla ricerca della sua identità: di recente ha abbracciato il ritorno di Caterina Altamore, tra le fondatrici di Articolo Uno. Ma è ancora troppo poco. La chiusura del tesseramento è stata prorogata al 7 gennaio, poi si torna a votare nei congressi provinciali e in quello regionale: “Ma stavolta chi perde non deve finire ai margini” ha detto Antonello Cracolici. Facile a dirsi, difficilissimo a farsi per un partito fagocitato dalle sue stesse correnti e da anni di malgoverno (con Crocetta) che sembrano averlo segnato in modo irredimibile.

E un tentativo ancora più disperato, per sfilarsi da scomode posizioni sovraniste, andrà fatto al centro. Dove tutti lamentano l’assenza di una guida per il grande popolo dei moderati. Prevalente in Sicilia – dicono – ma che non va più a votare. Nessuno, però, ha voglia di mettere le mani in pasta e avviare un nuovo cantiere. Ci sperano a tutte le latitudini: da Cuffaro a Cardinale, passando per Romano. Di questo passo, però, l’arcipelago centrista dell’Assemblea regionale – ci sono i popolari, gli autonomisti e quelli dell’Udc, oltre al plotone di Forza Italia – rischiano di finire schiacciati. Di scomparire. A meno che qualcuno di buona volontà non decida di fare un gesto coraggioso, e di scansarsi dalla politica urlata cha ha finito per scalfire le voci più ragionevoli. Ci hanno già provato Renzi e Calenda, incidendo il giusto. A queste latitudini, il buco nell’acqua resta dietro l’angolo. Ma la paura non si batte con la rassegnazione.