Coi centri direzionali siamo già a quota tre. Dopo quello (arcinoto) di via Ugo La Malfa, a Palermo, il cui bando di progettazione è stato “sospeso” per verificare eventuali conflitti d’interesse fra il presidente della commissione aggiudicatrice (il francese Marc Mimram) e il raggruppamento titolare del progetto vincitore, la giunta Musumeci ha apprezzato le modifiche proposte dal comune di Catania alla convenzione sottoscritta il 4 marzo scorso, che prevede “l’acquisizione del diritto di superficie ‘ad edificandum’ sulle aree edificabili” di Nesima Superiore. Cioè il quartiere del capoluogo etneo dove dovrebbe sorgere un altro centro direzionale per raggruppare sedi e uffici degli assessorati di stanza a Catania.

Ma non è tutto, perché nello scorso febbraio, Musumeci e l’assessore alla Salute, Ruggero Razza, fecero un sopralluogo a Enna, presso l’ospedale civico ‘Umberto I’, ormai dismesso, con l’obiettivo di trasformarlo in un altro centro direzionale. Il terzo. “La struttura – si leggeva in una nota di palazzo d’Orleans – potrebbe ospitare alcune centinaia di dipendenti e porre così fine all’inevitabile degrado in una area di particolare interesse urbanistico. Obiettivo del presidente e dell’assessore è quello di disporre il progetto esecutivo affinché, entro l’estate, si possano affidare i lavori di ristrutturazione”. L’intento di Musumeci & Co. è chiaro: riempire la Sicilia di centri direzionali per fare confluire i dipendenti sotto lo stesso tetto. Difficilmente accadrà qualcosa da qui al termine della legislatura, ma potranno dire di aver provato. Di aver lanciato, in tempi di pandemia, la mega rivoluzione del mattone. Anche se, come nel caso del progetto faraonico di Palermo (valore: 425 milioni), definito dal governatore “il più importante investimento di edilizia pubblica realizzato in Italia negli ultimi decenni”, i primi nodi sono venuti al pettine.

Ma soprattutto: dove si trovano i soldi per finanziare queste costruzioni mega galattiche, che fra l’altro sembrano cozzare molto con gli insegnamenti diffusi del Covid, e con la scelta di smaterializzare il lavoro negli uffici? Prima o poi una risposta arriverà. Fino ad allora sembreranno pavidi tentativi di spostare l’attenzione rispetto alle sofferenze ataviche della Sicilia. Che in questo periodo di emergenza sanitaria ed economica, si sono palesate in più modi: con le falle della sanità, che si riflettono sulla cura dei pazienti no-Covid; con la perdita di altri posti di lavori (il tasso di disoccupazione sfiora il 44%); con l’incapacità di offrire strumenti di sostegno al reddito (i ristori sono rimasti impantanati nelle maglie della burocrazia), con l’incapacità di attrarre investimenti produttivi e salvaguardare gli esistenti, eccetera eccetera. L’unico processo di “riforma” di questa Regione è legato, piuttosto, a operazioni di facciata inconcludenti: “Dopo il naufragio del progetto della creazione di un mega centro direzionale a Palermo, la Regione ci riprova, pensando di programmare un altro progetto degli uffici regionali a Catania. Quella di Musumeci – spiegano i deputati dei Cinque Stelle all’Ars – sembra più una chimera che il governo insegue ma che non riuscirà a realizzare, almeno in questa legislatura. Una Regione che non ha neanche reale contezza degli immobili che possiede, perde tempo a gettare fumo negli occhi con centri direzionali in ogni dove”.

Negli ultimi mesi, accantonate le fiere di Ambelia, i cavalli di battaglia si sono moltiplicati. Al di là dei centri direzionali, un altro chiodo fisso del governo regionale è il Ponte sullo Stretto. Un altro progetto faraonico – che non teme confronti con l’Akashi Kaikyo (in Giappone) – che Musumeci è stato abile a trasferire dai bar ai palazzi che contano. Persino in Parlamento, a Roma. L’ex Ministro delle Infrastrutture De Micheli, durante il Conte-2, ha insediato un gruppo di tecnici che, dopo otto mesi, hanno partorito una relazione completa sulla fattibilità di un’opera (oggi) ritenuta necessaria. Solo che, se dovessimo ripartire con la progettazione del ponte a tre campate – la preferita del gruppo di studio – ci vorrebbero anni e anni. Se invece si seguisse la progettazione (già esistente) di Impregilo-Salini, varata al tempo del governo Berlusconi, potremmo ritrovarcelo entro il 2030. Sempre che si riescano a superare i limiti evidenziati dai tecnici (dal rischio sismico in giù) e recuperare i 6 miliardi (circa) utili alla realizzazione. La Sicilia e la Calabria dicono di essere disposte a investire i soldi del proprio Bilancio: ma avete presente il Bilancio della Regione siciliana? Troppo facile fare i ricchi coi soldi degli altri… Finché non arriveranno risposte serie, tutte le argomentazioni sul Ponte – con cui si rivendicano la centralità della Sicilia nel bacino euro-afro-asiatico, la funzione di piattaforma logistica del Mediterraneo, il diritto dell’Isola a non essere considerata una colonia – suonano come poco credibili. Argomenti utili a coprire le proprie inefficienze.

Qualcuno, come l’assessore all’Economia Gaetano Armao, ritiene il Ponte sullo Stretto “un’opera che non solo consente il completamento del Corridoio Scandinavo-Mediterraneo, ma che consente di proiettare l’Europa verso il Mediterraneo e consente alla Sicilia di abbattere i costi dell’insularità della Sicilia che oggi ammontano a 6,5 miliardi di euro, l’anno, sostanzialmente il costo di realizzazione dell’infrastruttura”. Lo ha ribadito durante l’audizione di fronte alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, nei giorni dell’approvazione del Documento di Economia e Finanza. E l’ha ribadito, più o meno allo stesso modo, nel webinar che lui stesso ha organizzato: “Sardegna e Sicilia unite: insieme si vince”. Un appuntamento in cui ha ribadito come la “condizione di insularità” della Sicilia costi 6 miliardi l’anno: è come se ogni cittadino dell’Isola, ogni anno, si ritrovasse a pagare una tassa occulta di 1.200 euro. Un tema affrontato anche in occasione della ricorrenza dei 75 anni dell’Autonomia siciliana, con un lunghissimo report la cui premessa era, appunto, affidata al vicepresidente della Regione. Che per cercare di ricucire questa piaga storica – dovuta all’isolamento geografico, alla vulnerabilità dell’economia, alla mancanza di attrattività per le imprese – si è dovuto sobbarcare una marea di viaggi fra Bruxelles e Strasburgo nelle vesti di presidente dell’Intergruppo delle Regioni insulari del Comitato europeo delle Regioni. E’ già faticoso scriverlo, figurarsi capirlo.

In sostanza Armao va rivendicando, ormai da tre anni e mezzo, e nonostante le numerose iniziative e richieste avanzate a livello statale ed europeo, che “vi è ancora un ritardo ed una grave carenza di attenzione nelle politiche di coesione”. Che non si può “continuare ad eludere la questione della condizione di insularità ed il tema dei costi che essa determina tra le priorità delle politiche”. Che la Sicilia continua a pagare un prezzo altissimo alla sua condizione di regione ‘periferica’, separata del resto del continente. Ha creato un’architettura della lagna, che è direttamente proporzionale alla vacuità di certi argomenti. Giusto, forse necessario, trattarli. Ma allo scopo di ricavarci qualcosa. Altrimenti diventa un esercizio sterile di retorica, utile a promuovere se stessi e propagandare un’azione di governo che di concreto ha ben poco. Anche il Ponte e i centri direzionali si inquadrano in questa strategia ormai svelata. Spolverate di cipria per ‘mascherare’ il volto scavato dalla fatica e dalle rughe.