I settanta parlamentari dell’Ars, assieme al presidente Gaetano Galvagno, hanno messo un punto alle attività di Sala d’Ercole fino a dopo le Europee. I tempi non sono maturi per inventarsi riforme di sana pianta, né per allestire – in concordia – manovre riparatrici rispetto alla Finanziaria approvata a inizio gennaio, per una volta senza cedere alle lusinghe dell’esercizio provvisorio. Si rischia il pantano fino a giugno, sempre che non si vogliano considerare come norme “rivoluzionarie” la legge di riordino delle cave, la riclassificazione delle strutture ricettive o la mozione per impegnare il governo italiano ad assumere iniziative diplomatiche utili a risolvere il conflitto nella striscia di Gaza. Con tutta la buona volontà del caso, non servirà.

L’Assemblea regionale rimane così in sospeso fra i due “collegati”; tra quello che ha decretato l’ennesima brutta figura nei confronti di Palazzo Chigi, che avrebbe deciso di impugnare sette norme contenute nella legge stralcio (piena di marchette); e la prossima “manovrina”, che dovrebbe iniettare liquidità nelle casse dei Comuni e dell’Ast, l’Azienda siciliana dei Trasporti. Ma andiamo con ordine: perché uno dei risultati delle asinerie compiute a Palazzo dei Normanni, nonostante l’impegno di Galvagno di evitare leggi a rischio, si è materializzato qualche giorno fa. Quando il governo nazionale, su input di Calderoli (lo stesso che aveva rassicurato sull’iter delle province, poi bocciate dai franchi tiratori), ci ha tirato un bel calcio negli stinchi.

In primis impugnando due articoli contenuti nella Legge di Stabilità: uno prevedeva incentivi per i dipendenti regionali, l’altro la trasformazione del Cefpas (il centro di formazione per operatori sanitari di Caltanissetta) in ente del sistema sanitario. La scure di Palazzo Chigi, meno pesante che in passato, aveva colpito tuttavia una delle norme-spot fatte inserire da maggioranza e opposizione nel “collegato”, che ha seguito una strada parallela rispetto al testo base: si tratta delle assunzioni dirette per le donne vittime di violenza e gli orfani di femminicidio. Senza concorso, va da sé. Anche al termine di un lungo confronto al Ministero dell’Economia, un paio di giorni fa, Schifani ha dovuto rinunciare alla norma: “È l’unica amarezza – ha detto il governatore – Il ministero ha detto di no, perché è una materia di competenza nazionale”.

Garantire l’accesso alla pubblica amministrazione facendo leva sul tremendo dolore causato da una barbarie, avrebbe rappresentato una soluzione iniqua e molto populista. Un modo strampalato di lenire una ferita sociale. Eppur tuttavia, anche il partito di Cateno De Luca, Sud chiama Nord, si è scagliato contro la decisione del governo nazionale di cassarla: “Lo Stato – ha detto Ismaele La Vardera, promotore dell’iniziativa – dovrebbe stare vicino ai più deboli e non prenderli a calci. Fa rabbrividire che Schifani, esponente dello stesso governo, aveva detto che avrebbe difeso con le unghie e con i denti questa norma giusta. Giusta, non perché lo diciamo noi, ma perché la stessa maggioranza dopo l’approvazione ha provato a intestarsela in tutti i modi”. E in effetti ciò che importava era intestarsela, non trovare il modo di farsela approvare. Magari creando una “riserva” di posti nell’ambito di specifiche procedure concorsuali, anziché prevedere l’assunzione diretta. Lo stesso De Luca si è impuntato: “Che Schifani di fronte alla scelta del governo nazionale si limiti a dire semplicemente che è amareggiato fa ridere. Ci saremmo aspettati le barricate davanti palazzo Chigi e invece come al solito fa il latitante”.

A organizzare una manifestazione sotto Palazzo Chigi ci penseranno quelli di Sud chiama Nord, che nel frattempo potrebbero palesare le proprie rimostranze anche per il mancato “conguaglio” ai Comuni rispetto al tema degli extra costi per lo smaltimento dei rifiuti. Durante la pandemia il governo Musumeci aveva previsto un decreto da 45 milioni, a valere sui fondi Fsc (che sarebbero stati rimodulati da spesa per investimenti a spesa corrente) per sgravare i primi cittadini dal costo di conferimento all’estero (oggi siamo sui 480 euro a tonnellata). Ma quel decreto è stato pubblicato, non da Musumeci ma da Schifani, solo a fine 2023, coi termini dell’emergenza Covid già ampiamente superati. Ergo: i 45 milioni sono inutilizzabili. Peccato che i sindaci avessero inserito le singole voci nei bilanci, alcuni dei quali – come nel caso di Messina – già approvati.

Laddove i buchi delle Amministrazioni non dovessero tramutarsi in voragini e debiti fuori bilancio, il costo della Tari (a carico dei cittadini) rischia di aumentare. Per ovviare a una simile catastrofe, la Regione dovrà metterci una pezza. La maggioranza aveva individuato la prima finestra utile nel nuovo “collegato” in discussione all’Ars, da approvare in primavera. Ma a quanto pare non succederà: non ci sono i numeri né la serenità necessaria, all’interno della maggioranza, per mettere sul piatto altri tesoretti. Sarebbe una tentazione troppo grande per i 70 parlamentari ghiottoni, che già con l’ultima manovrina hanno spremuto le casse regionali accaparrandosi contributi di ogni tipo (per piazze, chiese, campi sportivi, associazioni, carnevali…). Per Paolo Amenta, presidente di Anci Sicilia, “prima il governo nazionale non ha concesso la proroga alla scadenza per il via libera ai bilanci di previsione, adesso la giunta regionale posticipa il “collegato” in cui, oltre ai 45 milioni passati, avevamo concordato uno stanziamento di ulteriori 15 milioni. Così i Comuni non possono reggere”.

Proporre una mini-Finanziaria con le Europee e le Amministrative sullo sfondo, però, significherebbe aizzare pretese e contraddizioni all’interno di una maggioranza logorata dai franchi tiratori e da un clima non proprio sereno fra i partiti (vedi il braccio di ferro fra Forza Italia ed Mpa dopo il caso Siracusa). Il rinvio del “collegato” potrebbe arrecare nuovi problemi anche all’Ast, l’Azienda dei trasporti, che da qualche mese tiene a digiuno (di corse) i pendolari e in ansia la politica, che vorrebbe preservarla da un finale quasi scritto. Nonostante l’Ast abbia chiuso già alcune corse e, nel futuro prossimo, potrebbe dimezzare ulteriormente la propria attività, l’intento del governo – con una forma di accanimento terapeutico – è salvarla grazie all’ennesima, costosa ricapitalizzazione. Quei soldi saranno inseriti nella manovrina di cui sopra, anche se bisognerà attendere.

Nel frattempo Schifani e Falcone si godono l’approvazione dei bilanci 2021 e 2022, che significa “innanzitutto serenità e garanzie per i lavoratori e per il servizio effettuato”. Ma non perde di vista l’obiettivo: “Ora passeremo all’adozione del nuovo piano industriale della nostra partecipata del trasporto pubblico, proseguendo nel percorso di salvataggio e risanamento avviato dal governo Schifani – dice Falcone -. Vogliamo restituire efficienza al sistema, salvaguardando i livelli occupazionali e dando risposte alle esigenze della mobilità locale in Sicilia”. Non è finita finché non è finita. Ma non commettere certe asinerie – comprese le clientele e i pizzini per veicolare le assunzioni (ricordate l’operazione Gomme Lisce?) – avrebbe evitato all’azienda una morte così lenta, odiosa e dolorosa. Basterà un “collegato” a non chiudere baracca e burattini?