Gestire una pandemia non è il mestiere più facile del mondo. Non esiste improntitudine, ma solo una buona dose di sfiga. Per questo non vorremmo essere nei panni di Ruggero Razza, che nelle ultime ore è stato investito da una valanga di critiche (verrà discussa anche una mozione di sfiducia all’Ars) per non aver assicurato – secondo le opposizioni – la necessaria dotazione di cure e posti letto. Ogni analisi accurata, però, ha il dovere di correlare il risultato finale, ancora incerto, rispetto alle basi di partenza. Ed è storia nota che la sanità siciliana, da sempre, è vittima di carenze strutturali e infrastrutturali che la politica, con le sue decisioni, non ha certo provveduto a comprimere.

L’assessore, prima di questo terribile virus, aveva tenuto testa con discreto orgoglio, buona professionalità e un pizzico di brio: aveva sbloccato concorsi, inaugurato ospedali, investito in tecnologia. La pandemia, invece, è stato quel banco di prova inatteso che poteva far saltare tutto. Oddio, siamo ancora in tempo: la seconda ondata è feroce, anche se sembra pian piano frenare. Ma solo nell’ultimo mese e mezzo sono venute a galla le difficoltà della Sicilia a dimenarsi in questo mare magnum di contagi. Al virus di primavera avevamo resistito bene: grazie ai numeri, assai contenuti, della curva; alla bravura di medici, infermieri e personale sanitario, che si erano guadagnati una pagnotta da mille euro – ferma con tutta la Finanziaria – e qualche tatuaggio, in segno di riconoscenza, sulla pelle; e, ovviamente, grazie alle precauzioni di palazzo Chigi, che aveva chiuso l’Italia, bloccando per settimane i voli aerei e l’attraversamento dello Stretto. Il virus in Sicilia non s’è quasi visto. Per Razza e Musumeci è stato come andare a segno a porta vuota.

Il “bello” è arrivato dopo, durante l’estate. Al netto delle decisioni assunte dal governatore – come riaprire le discoteche, o consentire i trasporti pubblici al 100% della capienza – resta un grosso punto interrogativo su come siano stati ridisegnati gli ospedali in vista della seconda ondata. Razza ha detto di non essersi fermato neanche un’ora, e se oggi ci sono dei ritardi nell’infrastrutturazione dei reparti, nella riconversione dei Covid Hospital, nella creazione di nuovi posti letto, la colpa è degli altri: “Col decreto Rilancio – aveva spiegato il 19 ottobre, in un’intervista a ‘la Sicilia’ – è stato affidato al commissario Arcuri il potenziamento della rete ospedaliera nazionale. Il 7 ottobre, dopo una lunga istruttoria nel corso della quale sono stati approvati gli interventi di potenziamento di tutte le Regioni italiane, il presidente Musumeci è stato nominato commissario delegato”. Fino ad allora la Regione siciliana non ha potuto avviare le iniziative e le procedure per i cantieri che – badate bene – non saranno completati domani. I 128 milioni stanziati a livello centrale, e gestiti da Tuccio D’Urso in qualità di soggetto attuatore, serviranno a una trentina di interventi in vari ospedali, ma appena il 30% di questi saranno pronti a gennaio. Ciò che rimane, fra luglio e dicembre dell’anno prossimo. Soldi, insomma, che servono a rattoppare l’emergenza. Ma anche no.

Il Decreto Rilancio impone alla Sicilia di creare altre 253 postazioni di Terapia intensiva e 318 di Sub-Intensiva. Sebbene l’Isola, secondo l’Agenas (l’agenzia per i servizi sanitari regionali), occupi il terzo posto per numero di nuovi posti letto attivati in Terapia intensiva. Un dato di cui gioire, ma non abbastanza per mollare la presa: ieri, infatti, coi 205 ricoveri in Rianimazione, eravamo al 28% di saturazione. La soglia critica resta il 30%. Siamo riusciti a respirare – almeno numericamente – grazie al nuovo “piano” che prevede, entro fine novembre, 416 posti per i malati di Sars-CoV2 che hanno bisogno di essere intubati. Il rosicchiamento – ad altri reparti e/o ospedali – rischia però di far sgretolare il mondo extra Covid. La gente, infatti, continua ad ammalarsi anche di altro.

E’ questa l’altra grande sfida di Razza: garantire le cure a tutti. “Mesi fa – diceva l’assessore a inizio ottobre, durante una diretta Facebook – abbiamo adottato la decisione di bloccare tutti i ricoveri. Si è fatto solo ciò che era urgente. Ma adesso non possiamo più avere un lockdown sanitario. Non possiamo dire a cittadini che non hanno il Coronavirus di tornare a casa perché si deve bloccare l’intera struttura ospedaliera, che magari rimane quasi vuota…”.

Peccato che la prospettiva, a distanza di 40 giorni, si sia già rovesciata. La prerogativa di salvare le “altre cure” è venuta meno dal giorno in cui il pronto soccorso dell’ospedale “Civico” di Palermo, il più grande dell’Isola, ha accolto solo pazienti Covid, spedendo tutti gli altri a Villa Sofia. Poi è stato il turno del “Cervello”, dove un paio di giorni fa hanno chiuso l’ambulatorio e il reparto di Ostetricia e Ginecologia. “Chiudere un reparto da 1.500 parti l’anno – ha spiegato Angelo Collodoro, del sindacato Cimo – scatenerà anche problemi di ordine pubblico”. Inoltre, sono stati sospesi l’attività ambulatoriale di Medicina interna e malattie croniche e intestinali e, temporaneamente, il pronto soccorso pediatrico. A Villa Sofia, invece, è saltato il reparto di Neurorianimazione, neurochirurgia e neurologia. Stop ai ricoveri in Neurologia anche al Policlinico, dove sono arrivati i primi pazienti Covid.

L’ospedale Giovanni Paolo II di Ragusa ha creato 25 posti di Terapia intensiva per pazienti Covid, ma ha dovuto “cancellare” i reparti di Urologia, Pediatria (conservando però l’ambulatorio), un reparto di Medicina su due, mentre Ostetricia ha dovuto dimezzare i posti. Le attività chirurgiche sono state sospese. La riconversione degli ospedali di Barcellona e Acireale ha fatto saltare parecchi servizi, mentre a Biancavilla sono stati sacrificati Pediatria e Medicina. Stessa sorte per il Policlinico di Catania, dove da una ventina di giorni sono state sospese le prestazioni differibili e a breve dovrebbe chiudere un reparto di Chirurgia. Al “San Marco”, diventato un hub per i malati Covid, sono stati riconvertiti i reparti di Chirurgia toracica e Ortopedia. Pochi esempi bastano per cogliere l’essenza del caos. Molte strutture, inoltre, si trovano a corto di personale – qualche medico è dovuto rientrare dalla pensione – nonostante Razza parlasse, a metà ottobre, di circa tremila assunzioni.

Oggi anche Musumeci corre il rischio (fortissimo) di dover contraddire il suo assessore, quando afferma che “finora abbiamo voluto preservare ovunque l’attività ordinaria”, ma “d’ora in avanti sarà necessaria la parziale riduzione delle degenze per altre patologie, fatta salva l’emergenza. Se si dovesse arrivare alla fase acuta – mi auguro di no, ma non lo escludo – sarà sospesa l’attività ordinaria in tutti gli ospedali dell’Isola e consentita solo l’attività emergenziale”. Di fronte a questo scenario apocalittico – ancora distante, per fortuna – le convinzioni più salde, del tipo “non ci sarà alcun lockdown sanitario”, potrebbero venir meno. E’ lungo la linea di confine che separa i due scenari – il contenimento del virus da un lato, l’ecatombe dall’altro – che si gioca il destino di Razza.

Il giudizio per il momento è sospeso, ma ai 70 deputati dell’Ars che – prossimamente – dovranno valutare (e votare) la mozione di censura presentata da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, non mancano gli elementi di valutazione. I capi d’accusa nei confronti dell’assessore alla Salute derivano dai parametri che l’Istituto superiore di sanità ha utilizzato per la valutazione del rischio: l’aumento dei focolai, le scarse capacità di tracciamento, la carenza di personale nelle Usca, cioè le unità specialistiche di continuità assistenziale; ma anche i tempi d’attesa per i tamponi (e per i risultati), la mancanza di ossigeno (smentita dal commissario Renato Costa, almeno a Palermo) e di barelle; i turni estenuanti dei lavoratori del 118 e il numero esiguo di personale sanitario. Su quest’ultimo aspetto, l’assessore ha provato a correre ai ripari, siglando un protocollo d’intesa con le tre università siciliane – Palermo, Catania e Messina – che permette di assumere a tempo determinato gli specializzandi al quarto e quinto anno. Ma anche coi medici di famiglia, che potranno gestire i pazienti Covid senza necessità di ricovero. Sul resto è più indietro. L’unica consolazione è la “trasparenza” dei dati, che hanno permesso all’Iss di valutare attentamente il nostro profilo di rischio.

Un capitolo a parte merita la questione “tamponi”. Più volte è stato imputato alla Regione di farne pochi – non si è mai superata la soglia psicologica dei diecimila quotidiani – ma negli ultimi giorni si è voluto rimediare con lo “screening di massa”, che è partito dalla Fiera del Mediterraneo di Palermo e sta coinvolgendo 40 città dell’Isola. In questo modo sarà più semplice risalire agli asintomatici e tracciare le persone con cui sono entrate in contatto. Anche se i test rapidi, che si svolgono col sistema del drive-in (in auto) – e da oggi saranno appannaggio anche dei medici di famiglia e dei pediatri di libera scelta – non sono compresi nel conteggio del Ministero della Salute (lo saranno). Per poter effettuare i test, la Regione ha raccolto l’adesione di oltre seimila professionisti che volontariamente hanno aderito a un bando: presteranno servizio 2.979 medici, 888 infermieri, 796 biologi, 2.038 operatori socio-sanitari e 61 aziende private.

Fare i tamponi, però, costa. E secondo un report di “Repubblica”, l’acquisto di test e reagenti rappresenta la voce più corposa nel carrello della spesa di Palazzo d’Orleans durante la pandemia: poco meno di 52 milioni, circa il 40% del totale. Al secondo posto ci sono le mascherine, con 31 milioni: durante la prima ondata ne erano arrivati tre carichi dalla Cina. La maggior parte degli affidamenti – nei confronti di colossi americani e svizzeri, ma anche di alcune aziende locali come la “Medielettra di Badalamenti Angelo Spa” – sono diretti, senza alcuna gara d’appalto, allo scopo di abbattere la burocrazia. E talvolta, come nel caso di quest’ultima società, con sede a Casteldaccia, nel Palermitano, non raggiungono nemmeno lo scopo prefissato.

La Medielettra, infatti, ha ottenuto due affidamenti diretti da parte del Policlinico di Palermo, per un totale di 984 mila euro, utili all’adeguamento dell’ex Imi (l’istituto materno infantile), di fronte a Villa Igiea. Bisognava convertirlo in Covid Hospital, ma la questione s’affumò in primavera. “Inizialmente, visto la necessità, si era pensato di mettere a disposizione i posti letto per l’emergenza Covid-19 – conferma Alessandro Caltagirone, commissario straordinario del Policlinico-Giaccone di Palermo –. Ma la mancanza di alcune caratteristiche e la distanza rispetto al presidio centrale, che non avrebbe garantito il controllo esaustivo di quei pazienti con pluripatologie, si è deciso di utilizzarlo per quelle attività con un impatto più basso, liberando così altro spazio nel Presidio centrale”. Oggi l’ex Imi è destinato a servizi di radiologia, oculistica e di laboratorio. Altro che Covid.

Nella valutazione del lavoro di Razza, forse, bisognerebbe tener conto di tutti gli ospedali, o presunti tali, che sarebbero tornati utili per combattere e abbattere l’emergenza. Ma che, una volta in disuso, non si è ritenuto opportuno ripristinare: dal Lazzaretto alla Guadagna, che fino agli ’90 conteneva 84 posti letto per i malati di Aids; passando per il palazzo di via Ingegneros, di proprietà del “Cervello-Villa Sofia”, dove negli ultimi trent’anni non si sono visti camici bianchi, ma soltanto vandali. Passando per altri edifici come l’ex ospedale Ferrarotto di Catania, dove c’era persino un reparto di Malattie infettive, e l’ex ospizio di Ribera, che oggi servirebbe come il pane per alleggerire la pressione sul “San Giovanni Di Dio”, il nosocomio di Agrigento. Anche queste incertezze, più che all’assessore Razza, sembrano imputabili alla mala gestio degli ultimi trent’anni. Che nel momento del bisogno – in questo caso, della pandemia – si ripresenta. Implacabile. Violenta. Andare contro Razza va di moda. E sembra aver sopraffatto un’altra prerogativa dei palazzi della politica: scoprire i veri imbalsamatori della Sicilia. Che non riesce più a spendere un euro: serve davvero un indizio?