“Un avviso di garanzia non è una condanna”, ha detto Musumeci. Come dargli torto? Ma dietro la nomina di Ruggero Razza, tornato ai posti di combattimento 65 giorni dopo le dimissioni – l’inchiesta che lo riguarda è tuttora in corso – ci sarebbe dell’altro. Secondo Claudio Fava, deputato dei Cento Passi e presidente della commissione Antimafia, non c’entra nulla il garantismo. Né l’appellativo di “persona perbene”, che il governatore ha affibbiato a se stesso ancor prima che al delfino-assessore: “Essere perbene – obietta Fava – non significa saper governare. Non siamo al tempo dei crociati, in cui bastava la croce per credere di esser degno del regno dei cieli. A me – dice il candidato governatore in pectore – Musumeci sembra Umberto di Savoia, il “re di maggio”: è convinto di regnare ma gli restano soltanto la divisa d’ordinanza e la banda musicale. E questa nomina ne è la prova”.

Perché?

“E’ un atto di disperazione per due ragioni: da un lato Musumeci si è reso conto di non poter toccare la giunta, altrimenti la polveriera in cui si è trasformata la sua maggioranza, sarebbe esplosa”.

L’altra ragione?

“Il presidente ha bisogno di qualcuno che gli copra le spalle di fronte a paventati ammutinamenti rispetto alla sua ricandidatura. Usa la faccia di Razza per parare i colpi che sono rivolti a lui”.

Razza si era dimesso per mettere al riparo le istituzioni da ogni sospetto. Non crede neanche a questo?

“Razza non si è dimesso per aver ricevuto l’avviso di garanzia. E’ stato il senso del pudore a imporglielo. Un assessore che suggerisce di “spalmare i morti” potrà essere (e certamente Razza lo è) una persona perbene, ma non è all’altezza morale di fare l’amministratore pubblico. Quella frase non si può archiviare con un generico atto di contrizione, ed è assai più grave di qualunque avviso di garanzia”.

Dal comunicato di palazzo d’Orleans emerge pure che Razza fosse l’unico in grado di completare un percorso già avviato. L’unico assessore possibile, anche a livello di competenze.

“Un’altra ipocrisia. Musumeci sa che la gestione della seconda ondata dell’epidemia è stata maldestra, superficiale. Hanno trascorso l’estate scorsa emanando ordinanze in deroga alle norme nazionali su distanziamento e posti a sedere sui mezzi di trasporto; ed evitando di porsi problemi più seri come la riconversione di una parte del sistema sanitario regionale. Che oggi, infatti, è in piena sofferenza. Un caso per tutti è quello di Marsala, la quinta città siciliana, dove un bacino di 100 mila persone è stato privato per mesi di un ospedale destinato alla cura dei pazienti Covid; ma dove il cantiere, inaugurato alla vigilia di Natale, non è mai stato aperto. La ditta incaricata dei lavori si è presentata a fine maggio e ci ha fatto sapere che serviranno altri dieci mesi. Casi come questi dimostrano che le dimissioni di Razza erano un atto di salute pubblica, non una conseguenza dell’avviso di garanzia”.

Ma non c’è nulla della gestione della pandemia che può essere archiviata come “positiva”?

“C’è una inettitudine complessiva nell’azione di governo, e ad essa va data una risposta. Non nei tribunali dell’inquisizione o al cospetto della magistratura ordinaria ma nelle forme della politica. Invece siamo alle prese con una somma raffazzonata di menzogne, di tentativi di parlar d’altro, tirando dentro il giustizialismo o la propria onestà morale, intesa come viatico al diritto di governare comunque…”.

Eppure il rientro di Razza sarebbe stato accolto dagli applausi e dalla festa della maggioranza, secondo Musumeci.

“Mi è sembrata anche questa una battuta disperata e un po’ patetica, un modo peraltro ingeneroso di esporre Razza a una situazione imbarazzante”.

Lei, in un’intervista, ha definito la nomina dell’assessore “una dimostrazione di disistima nei confronti del lavoro dei magistrati”. Perché?

“Il punto dell’inchiesta non è Razza, ma il pericoloso tracimare dell’intera amministrazione della sanità regionale in un terreno di reticenze, fandonie, invenzioni, numeri raccolti a casaccio, manipolazione di dati. Con il forte sospetto che fosse tutto legato alla necessità di avere un bollino giallo o arancione per la Sicilia. E questo è grave. Peraltro siamo di fronte a un assessore che prima si dimette, e poi viene richiamato in servizio da Musumeci senza che nulla sia cambiato. Un gesto stizzoso di scarso rispetto verso la responsabilità e il lavoro dei magistrati”.

Dopo la tragedia della funivia, a Stresa, l’opinione pubblica ha contestato la scelta del Gip di Verbania di scarcerare le tre persone indiziate di reato. Ma di questi casi ce ne sono parecchi. Non teme una deriva giustizialista nel Paese?

“La giustizia, nelle proprie scelte e nei propri provvedimenti, non può seguire gli umori della piazza, altrimenti la ghigliottina lavorerebbe ogni domenica a pieno ritmo. La restrizione della libertà personale, nel nostro ordinamento, è prevista soltanto in caso di rischio di reiterazione del reato, di fuga o di inquinamento delle prove. Il Gip di Verbania avrà fatto senz’altro le proprie valutazioni. Al di là della vicenda processuale, per tenere una persona in galera occorrono presupposti di legge, perché è così che funziona uno Stato di diritto”.

E nel caso di Brusca, quanto è giustificato il risentimento popolare?

“Anche qui siamo di fronte a un equivoco emotivo. Ci ha fatto comodo quando Brusca ha raccontato le sue verità: parziali, ne sono convinto, ma pur sempre decisive per consentire allo Stato e agli italiani di sapere com’era organizzata e costruita dall’interno Cosa Nostra, quali fossero i complici, i sodali, gli interessi, gli affari. La sua testimonianza e quella di molti altri collaboratori di giustizia ci sono servite anche ad evitare altri lutti. E’ per questo che esiste una legge che prevede non una sorta di perdono morale, ma un patto sostanziale fra lo Stato e il mafioso che collabora, a patto che la collaborazione sia ritenuta utile e veritiera. Prenda questo giovanotto che è comparso sulla scena per depistare e rimestare nella ricostruzione di via D’Amelio”.

Parla di Maurizio Avola, di cui si occupa l’ultimo libro di Santoro.

“Proprio lui. Avola è uno che ha ammazzato 85 persone e adesso, dopo aver scontato il suo periodo di detenzione, avrà diritto alla libertà. Ci stupiamo per Brusca e non ci stupiamo per uno che ci raccontava come strangolava i propri amici con la garrota del fil di ferro attorno al collo, solo perché gliel’aveva ordinato Ercolano o Santapaola? Dobbiamo mettere da parte questa ansia emotiva. Fa orrore a tutti l’idea che un assassino come Brusca torni libero, ma è previsto in una legge che noi ci siamo dati per convenienza nostra, non per cedimento dello Stato”.

E’ legittimo ipotizzare che la legge sui pentiti lasci filtrare, a distanza di anni, qualche spiffero?

“Considero ipocrita questo stracciarsi le vesti perché, dopo una condanna al massimo della pena, Brusca torni in libertà. E invece si taccia sul fatto che, dopo trent’anni, continuiamo a non sapere chi ha accompagnato o protetto le mani della mafia nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. E che il punto terminale di uno dei più terrificanti e ridicoli depistaggi che abbia conosciuto la nostra giustizia del mondo, cioè i processi per Borsellino, siano stati istruiti sulle canzonette di un venditore di sigarette di contrabbando: in un Paese civile, Vincenzo Scarantino sarebbe stato sbugiardato e smascherato un quarto d’ora dopo, sarebbe bastato dare ascolto agli altri collaboratori, agli esiti dei confronti… Ma a noi piaceva pensare di aver messo davvero in galera gli assassini di Borsellino, di aver risolto il caso, di aver vinto la nostra battaglia contro la mafia…”.

Invece il castello era fatto di carta.

“Questo dovrebbe indignare gli italiani. Che ci sia stata una rapina di verità. Scarantino è stato un depistaggio accompagnato, protetto, garantito: dolosamente, da apparati dello Stato; colpevolmente, da giudici imbelli in ansia di carriera. E tutto ciò è avvenuto per 17 anni. Dietro quelle stragi non c’è soltanto Riina che si vendica. C’è altro. Dietro molti degli omicidi avvenuti in Sicilia, c’è la presenza di pezzi e apparati dello Stato. Dovremmo indignarci semmai per il silenzio tombale da parte di alcune istituzioni che avrebbero gli strumenti per ottenere la verità e non li usano”.

Ad esempio?

“La commissione Antimafia, nel corso di un paio di indagini (una si chiuderà nei prossimi giorni), si è posta una domanda: chi, nelle stanze del governo e nella gerarchia interna del Sisde, ha autorizzato i servizi segreti a collaborare con la procura di Caltanissetta dalla mattina del 20 luglio ‘92? Quella collaborazione ha prodotto un unico risultato: offrire il profiling criminale di Scarantino come di un eccezionale capomafia, il primo tassello del depistaggio. Chi lo ha permesso? Possiamo davvero immaginare che tutto passi attraverso l’intesa fra Bruno Contrada e il procuratore capo Tinebra? E’ come se avessimo accettato che la verità ci venisse sottratta senza sentirci in dovere di pretenderne l’intera, totale, completa restituzione”.

Maria Falcone ha chiesto la riforma dell’ergastolo ostativo, dichiarato incostituzionale da una sentenza della Consulta dello scorso aprile. E’ d’accordo?

“Io sono dell’idea di rivedere il concetto di ergastolo. Per tutti. Ci sono paesi, non meno civili del nostro, dove non esistono pene detentive superiori a 30 anni. Io continuo a pensare che ergastolo è una sconfitta della civiltà: la pena dovrebbe proporsi come obiettivo la rieducazione e il reinserimento del reo, ma tutto questo non può avvenire se il fine pena è “mai”. Su questo – senza questi stracci emotivi che ci annebbiano la vista – sarebbe il caso di fare un ragionamento da Paese civile”.

Cambiamo totalmente discorso. Musumeci ha salutato con favore la realizzazione di un termovalorizzatore in Sicilia. Sembra un tentativo disperato di chiudere la stagione delle discariche e dell’oligopolio privato. Questa svolta è l’unica possibile?

“Secondo me è dettata da un’ignoranza politica di fondo. Musumeci è convinto che il piano dei rifiuti vada ridisegnato dal momento finale: cioè, capendo se è meglio bruciare i rifiuti o mandarli in discarica. Il discorso, in realtà, va capovolto, intervenendo a valle con un’impiantistica pubblica che permetta di lavorare in termini di riuso, recupero e riciclo. In modo che la frazione residua che arrivi allo scarto finale sia minima. Invece l’unica strategia è parlare di un ‘bruciatore’: mi sembra la mortificazione della politica, oltre che un errore da penna blu. Uno di quei colpi di grancassa, come il Ponte sullo Stretto, da sparare ogni tanto per non perdersi d’animo”.