Due emiliani – uno DOC, l’altra acquisita -, per qualche tempo con un percorso comune, Stefano Bonaccini alla guida della Regione ed Elly Schlein, sua vice, sono ai nastri di partenza del congresso del Partito democratico.

Due persone molto diverse, per formazione culturale e percorsi di vita politica.

Di conseguenza, con un progetto che ha pochi punti comuni.

La distanza delle loro storie è già plasticamente emersa dalle modalità dell’annuncio delle candidature.

All’interno di un circolo, che, con ogni probabilità, dovette essere una sezione del vecchio Partito comunista, dietro un tavolo, con una postura compassata, leggendo un discorso scritto davanti ad un uditorio di tradizionali militanti, Bonaccini ha ufficializzato la propria candidatura.

Lo ha fatto con il rito e le parole d’ordine appartenuti al suo vecchio mondo, rivolto in prevalenza all’interno del partito, proponendo un progetto che sembra muoversi dentro la tradizione socialdemocratica.

Ha parlato ai dirigenti del partito, quasi a tranquillizzarli in una transizione ordinata e senza stravolgimenti, si è rivolto al ceto moderato che non si riconosce nella destra e che potrebbe essere allettato dal terzo polo di Calenda e Renzi, e in conclusione ha delineato una sinistra riformista.

Molto diversa la proposta di Schlein, quella, almeno, che emerge da questi suoi primi passi. Ha voluto dare un segno, a cominciare dal luogo scelto per comunicare “voglio diventare la nuova segretaria del Partito democratico”.

In una sede di solito utilizzata per iniziative culturali, con spontaneità o con una notevole capacità recitativa, con tante persone attorno, con un assetto quasi da assemblea studentesca, con giovani in prevalenza ad applaudirla, Schlein ha prospettato “una speranza come alternativa” alla destra, che, detta così, può significare tutto e nulla.

Ha parlato di una “visione” che comprende e mette al centro l’ecologia, la transizione legata allo sviluppo, la lotta alle diseguaglianze e alle precarietà, ha delineato la costruzione di una forza progressista con una identità definita “insieme”, con protagonisti nuovi, con una attenzione al femminismo, che non si esaurisce semplicemente in una donna al comando e nell’assenza dell’impegno per la condizione femminile.

“Un’onda, non una nuova corrente”.

“Prendetevi il vostro spazio, non chiedetelo a nessuno”.

Il linguaggio di Schlein ha diversi punti di contatto con quello dei grillini, mantiene una buona dose di genericità e perfino di ambiguità.

Forse che quel linguaggio sarà in grado di catturare l’attenzione dei ceti sociali più svantaggiati, di quelli che non frequentano la politica e i suoi riti, neppure quelli elettorali o che sono attratti dal populismo dei Cinque stelle e in notevole misura dal richiamo di una destra sociale che promette loro anche garanzia di sicurezza nel rapporto con gli ultimi che approdano in Italia?

Al netto della retorica, inevitabile in queste occasioni e presente nei discorsi di entrambi i candidati, da un lato ci sono “l’usato sicuro”, una cultura sperimentata, una tradizione che viene da lontano, il protagonismo dei circoli e, a salire, dei quadri fino alla dirigenza nazionale.

Dall’altro, una proposta libertaria, la determinazione di rifare il partito, di scommettere su una formazione di sinistra, con parole d’ordine e riferimenti che non appartengono certo alla formazione marxista, semmai sono il risultato di sensibilità ed esperienze affermatesi all’interno della società, tra i giovani in particolare e nel mondo cattolico e rimaste estranee al dibattito politico.

Quello che prefigura Schlein può essere il partito nuovo della sinistra, in grado di intercettare mondi nuovi e di parare l’opa grillina, ma può rischiare di perdersi nell’indefinito delle buone intenzioni, nella volatilità di messaggi e proposte che difficilmente avranno la forza di sedimentare, di strutturare una realtà con una sua organizzazione e un suo programma, e che rischia, viceversa, di aprire un nuovo capitolo del populismo.

Alle perplessità, agli interrogativi e alle speranze, al rischio di una evanescente retorica, non appaiono in questo momento risposte.

Tuttavia forse è un rischio da correre, se non si vuole assistere alla dissoluzione di un partito essenziale per il corretto andamento della vita democratica, un partito che occorre smontare e rimontare, che deve preservare il consenso di quei ceti borghesi che da anni lo sostengono, ma deve anche e principalmente riattivare i canali di collegamento con le altre realtà sociali e con il mondo del lavoro in particolare.

Un progetto che rivisita e imbelletta l’esistente non può fermare la crisi del Partito democratico. Il percorso consueto seppure rabberciato, un leader autorevole, al di là della buona volontà, rischiano di non portare da nessuna parte.

Se in cinque anni di opposizione non si riesce a comporre una formazione nuova, con le tessere di una realtà che il mondo politico non ha capito e perciò ha ignorato, l’esperienza audace e carica di aspettative che, alcuni anni fa, mise insieme cattolici democratici ed ex comunisti, cesserà di esistere o non potrà essere una vera alternativa alla destra.

Una brevissima riflessione, infine, sulla realtà del Pd siciliano in ordine al congresso.

C’è un lavorio in atto, ovviamente. Nella scelta delle posizioni pesano le appartenenze alle correnti e il tentativo di trovarsi alla fine della corsa insieme al vincitore.

Una posizione già delineata sembra essere quella dell’attuale gruppo dirigente, che ha le maggiori responsabilità delle numerose, cocenti sconfitte e che mostra assoluta indisponibilità a mettersi in discussione. Quel gruppo è a sostegno di Schlein.

La nostra, si sa, è la terra del Gattopardo.