In Sicilia le grandi promesse non crollano tutte insieme. Evaporano. Succede quando l’acqua non basta, i rifiuti restano senza un piano credibile e il Ponte continua a vivere di rinvii e perplessità giuridiche. Dissalatori, termovalorizzatori e Ponte sullo Stretto: tre opere elevate a simbolo della svolta, tre pilastri della narrazione del governo regionale che, alla prova dei numeri e delle carte, mostrano crepe profonde e una distanza crescente tra l’annuncio politico e la sostenibilità amministrativa.

Il primo capitolo è quello dei dissalatori, tornati al centro del dibattito con il nuovo decreto del commissario straordinario nazionale per l’emergenza idrica, che ha approvato un piano di lungo periodo per rafforzare la portata degli impianti di Gela, Porto Empedocle e Trapani. Un intervento da oltre 41 milioni che si aggiunge ai circa 79 già impegnati nella prima fase, in gran parte attraverso il Fondo di sviluppo e coesione. Gli impianti sono attivi, la crisi idrica non è considerata superata e, anzi, per Gela e Trapani è previsto il raddoppio della portata fino a 192 litri al secondo.

Il governo regionale rivendica la scelta. «Proseguiamo con un percorso rigoroso e attento, basato su scelte concrete e responsabili – ha dichiarato Schifani -. Siamo consapevoli che i dissalatori non rappresentano la soluzione definitiva al problema della siccità, ma rinunciare a questi interventi avrebbe esposto la Sicilia a conseguenze ben peggiori». Il problema è che, a valle delle rassicurazioni, arrivano i conti. E i conti, come spesso accade in Sicilia, raccontano un’altra storia. A regime i dissalatori produrranno appena l’1,28 per cento dell’acqua necessaria rispetto a un fabbisogno annuo stimato in oltre 1,1 miliardi di metri cubi. Oggi contribuiscono per lo 0,77 per cento (come emerge dall’ultima relazione della Corte dei Conti).

Anche restringendo lo sguardo al solo fabbisogno civile o potabile, la quota coperta non supera il 5,28 per cento. Tutto questo a fronte di oltre 100 milioni di euro già spesi (o investiti) e una spesa annua prevista di circa 32 milioni di euro per la gestione a regime. Una sproporzione che i magistrati contabili non esitano a definire problematica, parlando apertamente di «palesi indicatori di diseconomicità» e sottolineando l’assenza di una relazione tecnica che giustifichi nel dettaglio il rapporto costi-benefici. Il contesto, del resto, è quello di un sistema idrico strutturalmente fragile: dei 45 grandi invasi artificiali dell’Isola, solo 38 risultano attivi e appena 18 funzionano a pieno regime. Altri 20 sono soggetti a limitazioni di riempimento, sette sono fuori esercizio o in costruzione. I dissalatori, in questo quadro, appaiono meno come una soluzione strutturale e più come una risposta emergenziale elevata a bandiera politica. Un rimedio parziale venduto come svolta.

Il secondo capitolo è quello dei rifiuti, forse il più emblematico per come mette a nudo un vizio antico della politica siciliana: l’assenza di una pianificazione attendibile. Il piano rifiuti su cui poggia il progetto dei due termovalorizzatori da 800 milioni di euro ciascuno, previsti a Palermo e Catania, è stato passato al setaccio dalla Corte dei Conti in un referto di oltre duecento pagine che ne smonta l’impianto. I magistrati parlano di gravi carenze programmatorie, organizzative, gestionali, informative e attuative, che determinano inefficienze nella pianificazione e nel controllo e, di conseguenza, nell’impiego delle risorse pubbliche.

La Corte evidenzia come il piano rifiuti risulti ormai superato in alcuni punti fondamentali, nonostante sia stato utilizzato come base per l’Accordo per lo sviluppo e la coesione sottoscritto tra Stato e Regione nel maggio 2024, a ridosso delle elezioni europee. Ancora più grave è la constatazione della mancata dimostrazione di una conoscenza capillare delle dotazioni impiantistiche esistenti, circostanza che non consente di verificare se la programmazione e il dimensionamento dei nuovi impianti, termovalorizzatori compresi, siano stati effettuati nel rispetto dei parametri di economicità, efficacia ed efficienza.

È il lascito di decenni di gestione emergenziale, dal 1999 in poi, che non ha prodotto i risultati annunciati e che continua a riproporsi sotto nuove forme. Il governo regionale respinge le critiche. Schifani ha ribadito che «sui termovalorizzatori si va avanti regolarmente», pur ammettendo l’esistenza di «resistenze su vari livelli». Il governatore è arrivato a evocare tentativi di delegittimazione dell’azione dell’esecutivo, paventando persino un intreccio con interessi che non vorrebbero rompere vecchi monopoli. Ieri, nel corso dell’incontro coi giornalisti, ha annunciato che “a febbraio i progettisti dovrebbero consegnarci lo schema orientativo affidabile degli impianti. Si tratta di due infrastrutture che miglioreranno la qualità della vita dei siciliani”. Ma il nodo resta politico prima ancora che tecnico. Non è solo una questione di tempi o di incomprensioni istituzionali: senza una pianificazione solida, verificabile e coerente, ogni grande opera rischia di nascere già zoppa. E ogni euro investito smette di essere una scelta di governo per trasformarsi in una scommessa.

Il terzo capitolo è il più ingombrante di tutti: il Ponte sullo Stretto. L’opera simbolo per eccellenza, tornata al centro del dibattito con lo spostamento di 780 milioni di euro al 2033 nella legge di Bilancio e con le rassicurazioni sulla tenuta complessiva delle risorse, pari a 13,5 miliardi. Formalmente non si parla di definanziamento, ma di un aggiornamento dell’iter amministrativo. Eppure, anche qui, le carte raccontano una storia più complessa. Sul piano giuridico pesano le motivazioni depositate dalla Corte dei conti, che giudicano incompatibile con le norme europee il terzo atto aggiuntivo alla convenzione tra il ministero delle Infrastrutture e la società Stretto di Messina. I magistrati sollevano perplessità sul rispetto del limite del 50 per cento di aumento del prezzo rispetto al valore iniziale del contratto, sull’incertezza del costo complessivo dell’opera e sulla modifica sostanziale dell’assetto contrattuale. A ciò si aggiunge il cambio di natura del finanziamento: da progetto che prevedeva un contributo significativo dei privati a opera interamente sostenuta da fondi pubblici, con un evidente riequilibrio a favore del concessionario.

Nel frattempo, in Sicilia restano bloccati circa 1,3 miliardi di euro del Fondo sviluppo e coesione, vincolati a un’opera che non ha ancora un progetto esecutivo né un cronoprogramma credibile. È su questo punto che il dibattito diventa apertamente politico: continuare a congelare risorse fondamentali, in attesa di un’opera sempre rimandata, significa sottrarle a interventi immediatamente utili per il territorio, dalle infrastrutture alla coesione sociale.

Tre dossier diversi, un filo rosso comune. Dissalatori, termovalorizzatori e Ponte raccontano lo stesso schema: l’annuncio precede la verifica, la narrazione politica anticipa i conti, le decisioni vengono rinviate quando arrivano i rilievi. Il risultato è un governo che promette svolte mentre si muove in equilibrio precario tra emergenze mai risolte e grandi opere mai davvero avviate. Mentre a Roma fanno spallucce…