“Sappiamo tutti che, prima o poi, arriveremo alla chiusura totale”. Nello Musumeci si è congedato così dall’Ars, martedì sera, dopo aver spiegato che il governo si farà promotore di un disegno di legge per riaprire teatri, cinema e ristoranti. Una contraddizione, l’ennesima, che giunge al termine di mesi schizofrenici, in cui il governatore aveva ostacolato persino gli arrivi da Villa San Giovanni. I rivali, adesso, lo accusano di essere “un irresponsabile convertito alla corrente dei negazionisti”. Bestemmie per le orecchie del presidente, che va incontro a questo destino ineluttabile convinto di aver fatto il massimo per evitarlo.

Il comportamento della Regione nei mesi estivi, però, rischia di segnare la fine di molte imprese. Che finora, da palazzo d’Orleans, non si sono viste recapitare neppure un centesimo del miliardo e mezzo promesso. A eccezione dei trenta milioni di fondi europei che il 29 marzo, prendendo d’infilata il governo Conte, Musumeci decise di destinare ai siciliani per lenire gli effetti dell’emergenza alimentare e delle prime chiusure. Dovevano essere 100, ma 70 sono rimasti impantanati nelle piaghe della burocrazia, impossibili da liberare. Per il resto, il piatto piange. La Finanziaria di cartone è stato un giochino illusionista venuto molto male. Del quale Musumeci, l’altra sera all’Ars, si è mostrato pienamente orgoglioso: “La nostra Finanziaria – ha spiegato in un passaggio durato meno di cinque minuti – ha previsto 100 milioni di aiuti alle famiglie indigenti, 125 per il diritto allo studio, 400 alle imprese dal PO-Fesr e 524 dalla riprogrammazione Fsc, altri 263 milioni per gli enti locali. Non sono cifre robuste, ma i soldi non si inventano”.

Ma anche queste, fino a prova contraria, sono cifre campate in aria. O meglio, rimaste sulla carta. I Comuni non hanno ancora visto un centesimo, sebbene il fondo di perequazione per sopperire alle minori entrate, in un primo tempo, ammontasse a 300 milioni (e non a 263). Le imprese, manco a parlarne: era stato fissato un click day che avrebbe dovuto portare nelle casse slabbrate delle microaziende, quelle fino a dieci dipendenti, un ristoro da 5 a 35 mila euro a fondo perduto. Macché. Il click day è stato annullato per un cortocircuito informatico di cui ancora si cercano i responsabili (la commissione ispettiva di Musumeci, composta da uomini di fiducia, sta cercando risposte all’Arit e al dipartimento Attività produttive). Tutto il resto è legato all’amara convinzione, o illusoria pretesa, di aver fatto i salti mortali. Ma anche il bonus per gli operatori turistici, con il primo bando avviato nel cuore della seconda ondata Covid, suona come un tentativo maldestro e sfigato.

Eppure, Musumeci si è presentato in aula ringalluzzito. E dopo aver fatto esercizio di virtù, spiegando che sul fronte della sanità ci sono stati innegabili progressi, ha provato a rassicurare pure su quello dell’economia. Con risultati, però, che non sono rintracciabili nella lunga elencazione di date che hanno scandito il discorso del presidente. Il quale, cronache alla mano, ha trascorso i mesi di luglio e agosto a inveire contro il Viminale per la gestione degli sbarchi a Lampedusa. Mentre nel menu offerto a Sala d’Ercole, la versione è un’altra: Musumeci, infatti, avrebbe trascorso il tempo in mille riunioni, con i responsabili del dipartimento Programmazione da un lato, e l’assessore Armao dall’altro, a cercare una strategia per la distribuzione delle risorse iscritte nella Legge di Stabilità. Che l’Ars aveva esitato il 2 maggio. Sei mesi addietro. Soldi che tuttora non si vedono.

Il governatore, inoltre, ha tirato fuori dal cilindro l’ennesimo coup de theatre: dopo aver affermato che il 18 settembre la commissione europea ha autorizzato la prima delibera di rimodulazione del Piano Operativo Fesr, per 400 milioni, Musumeci ha spiegato che il 26 ottobre, proprio alla vigilia dell’appuntamento di palazzo dei Normanni, la giunta ha apprezzato la seconda delibera di riprogrammazione di risorse extraregionali. Verranno messi all’asta ulteriori 569 milioni di fondi strutturali (tecnicamente si chiamano Fondi di Coesione e Sviluppo – Fsc), che esulano dal Po-Fesr. Non si sa quando, non si sa perché, non si sa come. La delibera di “apprezzamento”, infatti, non è stata ufficializzata sul sito della Regione e nemmeno i deputati, all’Ars, ne sapevano niente. Servirà un passaggio in commissione Bilancio, all’Ars, per capire quali investimenti sono stati depennati – a questo servono i fondi strutturali: agli investimenti – in favore delle nuove misure contro la pandemia.

Anche questo provvedimento restituisce la cifra di un governo che vuole gonfiare il proprio ego a scapito della verità fattuale. E di misure serie. Dovute. Efficaci. Annunciare è più facile che fare. E infatti l’altra mattina, nel corso di una riunione con banche e industriali, l’assessore Armao – sempre al riparo, nonostante tutto, dalle voci di rimpasto – ha dato segno di un’inspiegabile apertura: “La Regione, raschiando il barile, potrà mettere in campo altri 2,5 miliardi, ma non oltre. Del resto, non si può pensare di risolvere tutto col fondo perduto elevando il debito pubblico all’infinito o facendo indebitare ancora imprese e famiglie”. Mentre spetta al Recovery Fund – dove la Regione vuole inserire a tutti i costi la progettazione del Ponte sullo Stretto e di un aeroporto intercontinentale – “riequilibrare le diseguaglianze territoriali”. Qui ci sono in palio venti miliardi, secondo fonti di palazzo d’Orleans e di palazzo Chigi. Altri soldi avvolti nel mistero.

L’illusionismo, ormai acclarato, di questo esecutivo, riguarda infine il disegno di legge che la giunta ha approvato ieri sera per la riapertura di ristoranti e teatri (già rispedito al mittente dal Ministro Francesco Boccia). Siamo a un palmo di naso dalla dichiarazione di un nuovo lockdown, e questa legge deve ancora arrivare al presidente dell’Assemblea, che dovrà calendarizzarla, aprire i termini per gli emendamenti e poi passare al voto dell’aula (dove la proposta avrebbe i numeri per l’approvazione, dato che i renziani si sono dichiarati a favore). Se ne parlerebbe non prima della prossima settimana. Quando la curva si sarà ulteriormente accentuata, le terapie intensive affollate, e Roma, magari, avrà deciso di calare la mannaia sugli ultimi sprazzi di libertà. Sarebbe più facile un’ordinanza.

Ma tutto potrebbe rivelarsi inutile. Come la pretesa, da parte di Musumeci, di ergersi a difensore del popolo e delle imprese siciliane. O a statista, addirittura. Una definizione che ha avuto la forza e il coraggio di respingere pubblicamente: “Nessuno pensa di essere statista – ha detto in aula, di fronte agli attacchi martellanti delle opposizioni –, le aquile sono volate da un pezzo e sono rimasti i pidocchi. Non ci sono statisti in giro – ha proseguito il governatore – io vedo soltanto piante grasse e bonsai. Neanch’io sono una quercia, mi accontenterei di essere un arbusto. Ma i siciliani sanno di potersi fidare di questo governo, perché abbiamo superato una prova difficilissima nella prima fase”. Su quest’ultima affermazione servirebbe, quanto meno, un fact-checking. O forse no: le ultime rilevazioni sul gradimento dei governatori, sfornato alla fine della prima ondata del Coronavirus, aveva dato segnali di crescita anche per il presidente della Regione siciliana. Almeno un obiettivo è stato raggiunto.