Quella delle province – o se si vuole dei liberi consorzi dei Comuni, una locuzione giuridicamente più propria ma che non è mai entrata nel linguaggio consueto – è una delle vicende più emblematiche della Regione, governata in prevalenza dalla improvvisazione, dalla irresponsabilità e dall’assenza di una qualsiasi visione organica. Di recente l’Assemblea ha deciso di rinviare ancora una volta la elezione dei suoi organi democratici, con la motivazione, anche fondata, dell’imperversare della pandemia. La storia di una riforma dissennata e incompiuta è iniziata nel marzo del 2014, quando con 62 voti favorevoli e 14 contrari, il Parlamento regionale ha approvato la trasformazione di sei delle nove province in “liberi consorzi dei comuni” ed ha istituito le aree metropolitane di Palermo, Catania e Messina. Quel giorno venne raggiunta una tappa della “rivoluzione” costantemente annunciata con bolsa retorica dall’allora presidente Rosario Crocetta, che per un po’ visse di proclami, fino a quando gli altri non capirono che non andava preso sul serio. Incrociando il vento dell’antipolitica che soffiava forte e attaccava in particolare i “costi della politica” e imboccava di fatto la strada della riduzione dei livelli di democrazia, Crocetta e l’Assemblea anticiparono di qualche settimana il governo e il Parlamento nazionali.

A Roma ci si apprestava a svuotare le province in attesa della loro definitiva cancellazione attraverso la procedura costituzionale che avvenne successivamente con la riforma Renzi, poi bocciata dagli elettori nel referendum. Da Reggio Calabria a Bolzano le province, altrimenti indicate come “enti di area vasta” sono rimaste così a pencolare nel vuoto. Se a livello nazionale per sopprimerle era necessaria la procedura d’aggravio, la doppia lettura della legge da parte del Parlamento con i tempi lunghi che comportava, in Sicilia, in virtù della competenza specifica in tema di autonomie locali, si poteva procedere celermente e, in certo modo, dare una lezione di efficienza riformista al Paese. Crocetta intravide questa opportunità e la colse al volo con il duplice obiettivo di arrivare per primo nella gara a scombussolare l’assetto istituzionale e, per puntellare una maggioranza traballante, di lanciare un amo ai Cinque stelle, che nel settore già da allora non avevano competitori. L’abolizione o la trasformazione delle province in consorzi dei comuni avvenne nel tempo necessario per approvare una legge in Assemblea, dove naturalmente si formò una maggioranza vasta composta da forze politiche che seguivano in modo acritico l’onda dell’antipolitica.

Nel marzo del 2014, dopo l’approvazione plebiscitaria della legge, con tono enfatico, il presidente della Regione proclamò che quella “conquista” sarebbe passata alla “storia della Sicilia”. I grillini ovviamente rivendicarono quel risultato e gioirono perché calava “finalmente il sipario sulle province”. L’idea, dissero, era stata loro e la riduzione dei costi della politica con loro era entrata nel Palazzo. Il progetto di creare i liberi consorzi – se ne immaginarono ben trentatré – si dimostrò presto velleitario e inattuabile. La riforma finì per essere un vero e proprio disastro. Enti che avevano una lunga storia e che in particolare nelle province più piccole della Sicilia svolgevano un ruolo utile di coordinamento delle iniziative dei comuni ed erogavano servizi essenziali, risultarono del tutto svuotati senza che peraltro venisse individuata una soluzione alternativa. Continuarono ad assicurare lo stipendio a dipendenti deresponsabilizzati e senza obiettivi e divennero oggetto di operazioni di piccolo potere per collocarvi commissari scelti in ragione della fedeltà ai partiti.

Per sette anni questo scempio è proseguito, nell’indifferenza e anzi con la complicità di chi ha governato la Sicilia, il centro-sinistra prima e il centro-destra dopo. C’è da aggiungere che Crocetta patteggiò con il governo nazionale la sospensione, per alcuni anni, dei trasferimenti statali alle province per chiudere un contenzioso finanziario. Risultò possibile rinunciare a quelle somme anche perché non esisteva ormai alcun interesse politico a tutela di quegli enti.
La giunta Musumeci da tre anni ha continuato a prorogare il regime commissariale e non ha mai fatto nulla per far recuperare loro efficienza e per dotarli degli organi di governo, se pure di secondo livello. L’unica manifestazione di interesse si è risolta nel maldestro tentativo di reintrodurre l’elezione diretta degli organi col voto popolare e la legge è stata bocciata dalla Corte costituzionale.

Le conseguenze della scelta del 2014 e della inerzia che ne è seguita sono incalcolabili. Le province si occupano dell’edilizia per le scuole secondarie, dai licei agli istituti tecnici e professionali, del dimensionamento della rete scolastica e dei servizi necessari per incrementare il diritto allo studio.

L’altro settore di competenza riguarda la viabilità secondaria che, nell’Isola, raggiungendo quasi l’80 per cento dell’intero tracciato stradale, collega spesso in modo esclusivo molti dei centri abitati e attraversa vaste zone dove si svolgono attività produttive, in particolare nel settore agricolo. L’azzeramento della manutenzione ordinaria, in molti casi ha ridotto quelle strade in trazzere intransitabili con pesanti riflessi economici e, quando sarà possibile attuare ripristini organici, i costi saranno almeno quintuplicati. Gli edifici scolastici, già per nulla di eccellente qualità, si sono ulteriormente deteriorati. Le manutenzioni nei due settori si sono bloccate per mancanza di finanziamenti e anche perché nelle province non c’è più nessuno in grado di progettare interventi di modesta portata. Per più di un anno, ad Agrigento, a dirigere l’ufficio tecnico della provincia dovette essere un funzionario con la laurea in economia e commercio. Nel 2018 – e questo è un dato scandalosamente emblematico – lo Stato ha stanziato poco meno di 600 milioni per le strade provinciali dell’Isola. Quella somma è rimasta intatta. Non è risultato impegnato o speso neppure un euro. Mentre ancora, per quanto ridotta, permane l’ubriacatura populista, mentre resta l’incapacità di governare i processi politici, l’abbattimento dei costi si è limitato alla abolizione delle indennità e dei gettoni di presenza degli amministratori, un risparmio davvero irrisorio. Quel taglio ha ridotto invece in modo considerevole servizi essenziali all’economia siciliana.

I veri costi della politica sono quelli della inefficienza, dell’incapacità di organizzazione e di spesa. I costi impropri sono stati quelli della formazione professionale, settore nel quale parecchi deputati regionali si erano inseriti con una propria struttura; sono i soldi non spesi restituiti a Bruxelles. Lo spreco è quello della sanità con un esborso maggiore rispetto alla media nazionale e con servizi spesso di qualità inferiore. I costi sono quelli che derivano dai tempi biblici per avviare e completare i lavori pubblici e le infrastrutture, sono quelli dei sussidi e dei contributi a pioggia a sostegno di iniziative di nessun valore culturale, derivano dal mantenimento di una Regione da parecchio tempo non più motore ma freno dello sviluppo.