“Mi sento di dover lanciare un appello”. È la frase chiave, quella che tradisce lo stato d’animo di un presidente alle prese con l’ennesima scalata impossibile. Non è la solennità di uno statista che chiama a raccolta la sua maggioranza; è il tremito di chi avverte che un’altra Caporetto, dopo l’effetto Cuffaro, rischierebbe di scuotere persino i palazzi romani dove si misurano i livelli di tossicità della politica siciliana. E infatti, tra via della Scrofa, via Bellerio e piazza San Lorenzo in Lucina, da settimane si parla sempre più apertamente del morbo che infetta il centrodestra: il “Mal di Sicilia”.
Lo racconta La Sicilia in un lungo retroscena che fotografa con precisione chirurgica l’atmosfera capitolina: leader nazionali che scansano l’Isola come se fosse un gatto nero, funzionari che osservano con crescente apprensione i sondaggi, ministri e coordinatori che rimandano riunioni, scelte, perfino opinioni per il timore di rimanere impigliati nell’ennesimo guaio prodotto dal laboratorio politico più caotico del Paese. Questo è l’ultimo incubo di Meloni, alle prese con la richiesta di rinvio a giudizio che scuote il futuro di Gaetano Galvagno ed Elvira Amata (entrambi sotto accusa per corruzione, al presidente dell’Ars si aggiunge anche il peculato). Mentre Tajani, che teme l’imboscata di Occhiuto (grazie alla spinta sotterranea dei Berlusconi), preferisce non pronunciarsi e osservare da lontano. Con accentuato distacco.
Il caso Cuffaro – l’arresto, il clamore, la cacciata di due assessori e il nuovo patto di sopravvivenza con la Dc – ha solo accelerato un processo già in corso. E la nuova Legge di Stabilità, con l’opposizione già abbarbicata sull’Aventino in attesa di presentare centinaia di emendamenti in aula, scoraggerebbe anche il più temerario dei presidenti. Con la mozione di sfiducia respinta a larga maggioranza, Schifani ha dimostrato di avere una “casta” che lo sostiene. Ma i partiti sono un’altra cosa e di fronte al primo “no” scatterà il moto d’orgoglio: cioè il voto segreto.
Con l’ultima manovra-quater ci si è già resi conto dell’ovvio: la maggioranza non esiste davvero. Tre quarti delle variazioni di bilancio sono stati affossati dai franchi tiratori. E potrebbe essere così stavolta. Quando Schifani parla di “coalizione coesa”, infatti, finge di dimenticare le numerose peripezie che l’hanno condotto a questo punto. Da qui un invito alla responsabilità, una supplica mascherata da richiamo istituzionale. “Non ci siano fughe in avanti”, ripete due volte. “Il momento è delicato”, sottolinea. “C’è un limite alla capienza e non possiamo far saltare i conti”, insiste.
Il tutto mentre convoca vertici, riunioni, pre-vertici e post-vertici per blindare una manovra che sa benissimo essere il banco di prova della sua sopravvivenza politica. Anche perché di fronte all’ipotesi delle mance, o alle misure per i territori (come le chiamano oggi) sarà impossibile placare la fame dei partiti e le istanze provenienti dai collegi elettorali. “Finora i parlamentari della maggioranza hanno dato prova di grande responsabilità”, dice il governatore. Ma sa che non è affatto vero.
E qui il punto diventa politico, non contabile. Schifani teme che la sua stessa maggioranza, quella che spesso lo applaude in pubblico e lo dissangua in privato, possa farlo inciampare proprio sulla Finanziaria. Per questo parla di “responsabilità”, per questo brandisce la parola “coesione” come un amuleto contro il malocchio. Perché capisce che un altro inciampo, oggi, avrebbe effetti devastanti: darebbe sostanza al racconto romano della Sicilia come terra ingovernabile, alimenterebbe il sospetto che l’esperimento Schifani sia arrivato al capolinea, consegnerebbe ai suoi nemici interni – a partire da Forza Italia, mai “ricompensata” a fronte di un peso elettorale accertato – la prova che aspettano per chiedere la testa politica del presidente.
Il paradosso è tutto qui: mentre i leader nazionali cercano di “lasciare la Sicilia ai siciliani” pur di non bruciarsi le dita, in Sicilia nessuno vuole davvero prendersi la responsabilità di governare. E il risultato è un balletto di delegittimazione reciproca che ricorda più un condominio litigioso che una coalizione di governo. Con un’aggravante: i sondaggi iniziano a scricchiolare. Alle prossime Politiche i collegi uninominali, come racconta Barresi su “La Sicilia”, non sarebbero più blindati, l’astensione colpirebbe soprattutto il centrodestra, l’aria del cambiamento — alimentata da scandali e processi — potrebbe ribaltare equilibri che fino a ieri sembravano scolpiti nella pietra.
È per questo che Schifani, oggi, appare così nervoso. Sa che non può permettersi errori. Sa che a Roma lo osservano come un problema da gestire, non come un alleato da valorizzare. Sa che ogni inciampo potrebbe accelerare l’ipotesi di un “modello Occhiuto” – dimissionario e poi ricandidato – senza però disporre del capitale politico del governatore della Calabria. E soprattutto sa che il “Mal di Sicilia” non è solo un’infezione romana: è il prodotto dell’instabilità permanente che la sua stessa maggioranza alimenta giorno dopo giorno. Ecco perché gli appelli suonano un po’ beffardi e fuori tempo: la Finanziaria rischia solo di complicare le cose.


