“L’Occidente di preciso a che ora tramonta? E se è già tramontato, da quando esattamente?”. Dopo anni di sentir parlare del crepuscolo della civiltà occidentale, uno la domanda se la pone, senza essere la Pizia, oracolo di Delfi nell’antica Grecia.

E magari la vorrebbe anche fare al nostro esperto in tv, in studio h24, da quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Il quale si destreggia nell’interpretazione della geopolitica globale come fosse Tiresia, per restare nel mondo classico.

Che poi anche sulla data dello scoppio bisognerebbe mettersi d’accordo perché c’è chi ricorda gli scontri cruenti del 2014 a Kiev e dintorni, definiti “rivoluzione ucraina” dal punto di vista filoccidentale, “colpo di stato” secondo i russi. Con in mezzo la tragedia di Odessa, già città martire durante il nazismo e in tante altre occasioni della storia, porto sul Mar Nero con un nome così evocativo che dispiace due volte.

Comunque sia, la guerra è dentro l’Europa, la più vasta operazione militare nel continente dai tempi della Seconda guerra mondiale. “La sanguinosa follia”, come avrebbe detto Oriana Fallaci, è alle porte e l’allerta è massima quando si annuncia l’uso di armi nucleari. Con l’aggravante che l’America che c’era una volta, adesso non c’è più. Lo testimonia purtroppo l’immagine (che è “forma” per eccellenza) del suo presidente, il quale quasi fatica a deambulare e appena pochi mesi fa ha lasciato l’Afghanistan in braghe di tela dopo vent’anni di guerra guerreggiata. Vatti a fidare. Di lui, come della Nato, come dell’Unione Europea che “per la prima volta finanzierà l’acquisto di armi contro l’aggressione di Putin” come ha sentenziato, stavolta non via sms, Ursula von der Leyen. Ovviamente di fidarsi di Putin manco a parlane coi suoi trascorsi nel Kgb.

Armiamoci e partite, come nella migliore tradizione italiana. I primi sono stati i nostri inviati. Tolta la mascherina considerata d’ordinanza negli ultimi due anni, con effetti disastrosi per l’assenza di labiale sulla comprensione del testo da parte dei telespettatori diversamente giovani, i nostri inviati hanno indossato l’equipaggiamento da reporter di guerra altrettanto d’ordinanza: elmetto e giubbotto antiproiettile, possibilmente con la scritta Press sovrapposta, a sottolineare l’indipendenza della libera stampa che dovrebbe documentare atrocità ed eroismi “né con la Russia, né con l’Ucraina”.

E qui si apre un capitolo a parte, uno sguardo irriverente pur nella tragedia della guerra. Perché in quarantotto ore Putin ha fatto sparire il Covid dall’Europa intera. Non se ne parla più. Secondo i canoni del giornalismo ciò di cui non si parla non esiste. Speriamo che funzioni. Soprattutto per i nostri inviati, rigorosamente senza mascherina, in un paese di circa 43 milioni di abitanti, poco vaccinati soprattutto con la terza dose. Gente che in Italia neppure potrebbe salire sull’autobus.

Se non fosse impertinente si potrebbe proporre Putin per il premio Nobel della Medicina come Obama ha avuto il Nobel per la Pace, nonostante abbia aperto più focolai di guerra di qualsiasi altro presidente degli Stati Uniti della storia recente senza chiudere nessuno di quelli ereditati. In alcuni casi ne paghiamo ancora le conseguenze, vedi eventi in Libia, in Siria, ma anche in Somalia, Yemen, Iraq, Pakistan e nella stessa Ucraina, repubblica indipendente dal 1991 dopo la dissoluzione dell’Urss.

Trent’anni complicati. Basti ricordare il caso dell’imprenditrice Julija Tymošenko, considerata una delle donne più potenti del mondo da Forbes, rivista economica statunitense. Divenuta primo ministro dell’Ucraina, alla fine del mandato venne arrestata e trascorse tre anni in carcere.

Oggi il presidente è Volodymyr Zelensky, che incarna il “Paradosso sull’attor comico” di Diderot, un libro assai amato da Sciascia il quale aveva previsto ante diem come l’apparenza avrebbe sovrastato e inglobato la realtà.  “E’ la natura che dona le qualità personali: figura, voce, acume e finezza – scrive Diderot – poi l’assiduo lavoro e l’esperienza perfezioneranno il dono della natura”.

Zelensky, il simbolo della resistenza ucraina, in mimetica davanti alla telecamera, fino a quattro anni fa era uno dei comici più famosi del suo paese, protagonista di una di serie televisiva di successo: “Il servo del popolo”, in cui si narra l’ascesa al potere di un oscuro professore di Kiev fino a diventare “il presidente del popolo”. Detto, fatto. Sull’onda del successo di tre stagioni in tv, nasce il partito politico con lo stesso nome dello sceneggiato. Zelensky si candida e ottiene un plebiscito. Eletto con il 73 per cento dei consensi dagli ucraini. Popolo che ha prodotto pagine di letteratura universale come “Le anime morte” di Gogol o “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, la danza di Nijinsky, la musica di Horowitz.

Altro che “camerieri, badanti e amanti”, copyright Lucia Annunziata & Antonio Di Bella, impagabile coppia del giornalismo nostrano, mica due pivelli qualsiasi. Hanno vissuto e lavorato tra Italia e estero, sanno come si sta al mondo e come si fabbricano opinioni, chi fustigare e chi premiare. Anche se gli scappa un fuori onda razzista, una banalità becera, “voce dal sen fuggita”, non pagano dazio e non scendono mica dallo scranno. Anche perché nessuno glielo chiede. Sono il “sancta sanctorum” del politicamente corretto, i cantori del pensiero unico.

Se queste sono le fonti meglio lasciare perdere l’analisi geopolitica, le ragioni degli uni e i torti degli altri. Bisognerebbe risalire almeno al Divo Giulio che di fronte alla caduta del muro di Berlino e all’unificazione tedesca ebbe a dire che amava talmente tanto la Germania che ne preferiva due. Un’era geologica fa. Altro acume. Altra arguzia.

Restano i nostri inviati a raccontare gli accadimenti. Con oggettive difficoltà. Capita che per portare a casa un servizio decente, talvolta qualcuno/a ecceda o il cameraman sia distratto e non badi all’inquadratura. Con effetto “straniamento” rispetto alla percezione della realtà, alla verità del momento inquadrato che contraddice la verità del momento narrato. Perché capita di vedere giornalisti/e di tutti i Tg, attrezzati di tutto punto come Oriana Fallaci in Vietnam, che raccontano fatti di guerra mentre tutto attorno la vita scorre normale, un’anziana signora porta la spesa o i bambini giocano per strada o un turista fotografa una cupola d’oro a Kiev.

Il che non significa che non c’è la guerra in Ucraina, intendiamoci, ma solo che loro, i giornalisti, non sono proprio al fronte, luogo che in effetti, anche a volerlo, è difficile da raggiungere. Soprattutto da quando è invalsa, durante la seconda guerra del Golfo, la pratica del “embedded journalism” al seguito delle truppe militari, con la possibilità per i cronisti prescelti di raccontare più da vicino il teatro delle operazioni anche dal punto di vista di chi conduce l’azione.

Per capirci, la più famosa giornalista italiana “embedded” rimane Monica Maggioni, oggi direttrice del Tg1, testata per la quale nel 2003 realizzò cronache dall’Iraq, poi confluite in un libro: “Dentro la guerra. Il conflitto iracheno raccontato da una reporter al seguito dei militari americani”, Tea editore, 2007.  Maggioni era l’unica italiana ammessa tra le fila americane e ciò, assieme alla indiscussa bravura e tenacia, le ha portato fortuna.

La guerra, si sa, è anche, forse soprattutto, propaganda. Ai tempi di internet il gioco è più duro. Difficile discernere per chi ci lavora, sempre di corsa contro il tempo, la notizia vera da quella falsa e soprattutto l’immagine vera da quella falsa. Ecco allora il videogioco di guerra, o la parata militare di due anni fa sui cieli di Kiev spacciati per ostilità in diretta, o il blindato d’annata che investe l’utilitaria.

Sembrano inezie, ma nell’informazione ciò che conta è la credibilità. Almeno così ci hanno insegnato in un’altra epoca del giornalismo. Che non era affatto l’età dell’oro. Ma non c’era bisogno di vivere dentro “lo spettacolo integrato” previsto da Guy Debord, il filosofo e cineasta protagonista del Maggio francese. Non c’era bisogno di stare sempre sull’orlo dell’emergenza, per poterla sceneggiare.

L’Occidente è morto, forse. Ma neppure i giornalisti stiamo tanto bene.