Il governo non c’è più. S’è liquefatto. All’ultima riunione di giunta, convocata da Musumeci a Palermo, si sono presentati in tre (Aricò, Falcone e Zambuto). Tutti gli altri, o quasi, si sono collegati in videoconferenza. Compreso Gaetano Armao, che anche dopo l’umiliante sconfitta del 2%, ha goduto delle ultime ore da plenipotenziario all’Economia. Ma in questo clima da ultimo giorno di scuola, la notizia è che la giunta ha deliberato ancora. E ancora. Tra gli ultimi adempimenti approvati c’è il via libera al progetto di Rfi della stazione interrata a Fontanarossa (Catania); l’approvazione della versione aggiornata del nuovo Fesr Sicilia 2021-27 per 5,8 miliardi (fondo europei); un finanziamento da 12 milioni per la manutenzione dei corsi d’acqua e la prevenzione del rischio idrogeologico; e, dulcis in fundo, l’ampliamento della pianta organica del Cefpas, il centro d’eccellenza per la formazione di medici e operatori sanitari, che in questi anni è diventato un avamposto di potere senza precedenti.

I posti aggiuntivi sono 143, di cui soltanto 16 andranno a bando il primo anno. La proposta di delibera, avanzata dal direttore del Cefpas Roberto Sanfilippo, è solo l’ultimo provvedimento a favore del piccolo ‘feudo’ musumeciano, dove si formano i nuovi manager della sanità nostrana. Il Cefpas è diventato lo snodo di numerose operazioni: come quelle sul Pnrr. Oltre a inserire Sanfilippo nella nota task force per il monitoraggio e la pianificazione degli interventi previsti dalla Missione 6 (quella sulla Sanità), il centro di Caltanissetta è stato destinatario di numerose risorse: 40 milioni per la digitalizzazione dei Dea (dipartimenti di emergenza e accettazione) di I e II livello; 3,5 milioni per occuparsi di interconnessione aziendale fra case di cura, assistenza domiciliare e telemedicina; altri 3 milioni per il rafforzamento dell’infrastruttura tecnologica e degli strumenti per la raccolta, l’elaborazione e l’analisi dei dati; 7,5 per la formazione ‘semplice’. Inoltre, negli ultimi due bilanci, la gestione dell’Ente ha costretto la Regione a sborsare 5,4 milioni l’anno.

Quello del Cefpas è un cerchio che si chiude, anche se col nuovo governo Schifani – e il rischio, paventato, che l’assessorato alla Salute venga trasferito da Razza a Forza Italia – il giocattolino passerà di mano.  Il neo governatore vuole circondarsi di assessori competenti, ma che siano deputati. Cosa che non sempre è avvenuta negli ultimi cinque anni. Razza, ad esempio, non era stato eletto nel 2017 a Palazzo dei Normanni, e non si ripresentato nemmeno stavolta. Inoltre, l’esperimento di lanciare nella mischia la moglie Elena Pagana, nel collegio di Enna, si è rivelato un flop: la candidata ex grillina (ora di FdI) ha raccolto 1.600 preferenze, non abbastanza per varcare il portone di Sala d’Ercole. Né per ambire a posizioni di prestigio nella prossima giunta. Musumeci, che aveva già il biglietto di sola andata per Roma, non ha prodotto sforzi per salvare la sua scuderia. Al netto di qualche comizio che, però, non ha dato i frutti sperati: tutti quelli di Attiva Sicilia, stampellisti del suo ultimo esecutivo, sono stati sonoramente sconfitti.

Tantissimi della sua squadra non si sono nemmeno presentati all’appuntamento delle urne. Gli unici ad aver fatto uno strappo alla regola sono Marco Falcone, eletto a Catania con oltre 13 mila preferenze; Mimmo Turano, eletto con la Lega a Trapani per il suo settimo mandato all’Ars; e Alessandro Aricò, la cui permanenza in giunta era durata appena qualche mese. L’assessore uscente alla Formazione può ambire a un ruolo di primo piano grazie all’affermazione ottenuta a Palermo. E gli altri? Svaniti nel nulla… Di Armao s’è già detto ampiamente: il vicepresidente della Regione, che cinque anni fa beffò Berlusconi e Ronzulli presentandosi a corte come il leader degli indignati, ha preso il 2%. In provincia di Palermo, inoltre, è finito terzo nella sua lista, totalizzando 1.270 preferenze. Alle spalle di Leonardo Canto e Francesco Bertolino. Gli è andata peggio a Trapani, dove ha totalizzato 153 preferenze; mentre a Messina ne ha messe insieme 112. Anche al Senato è stato tagliato fuori a causa di una candidatura errata, in Sicilia orientale, dove il Terzo Polo non ha raccolti abbastanza voti per far scattare il seggio.

Anche di Razza, in parte, si è già detto. Il delfino ha preferito rimanere fuori dalla competizione per riorganizzare la sua vita all’interno del nuovo partito: Fratelli d’Italia. Che annovera pure Toto Cordaro: l’assessore al Territorio e Ambiente, però, ha scelto la Meloni all’ultimo secondo utile, con le liste già consegnate. Non ha avuto quindi la possibilità di confrontarsi con gli elettori. Come Manlio Messina, d’altronde, che ha scelto la via più comoda del listino proporzionale bloccato, alle spalle di Giorgia, per avere un accesso comodo al parlamento nazionale.

Pure Marco Zambuto, accolto in giunta da Forza Italia e passato, negli ultimi mesi, sotto l’ala protettiva di Musumeci, ha bypassato ogni tipo di candidatura. Mentre l’altro azzurro della prima ora, Tony Scilla, non ha ottenuto il seggio, scalzato a Trapani da Stefano Pellegrino. La Baglieri, schierata in giunta con l’Udc e non in grado (nel poco tempo a disposizione) di risolvere la grana della monnezza, si era rimessa in gioco con FI a Ragusa, ma in quella che era la sua provincia d’origine nessuno la conosceva: 392 preferenze e addio sogni di gloria. Antonio Scavone, braccio destro di Raffaele Lombardo, non ci ha neppure riprovato. Come Alberto Samonà, che aveva deciso di comune accordo con la Lega di non ricandidarsi.

Alla prova dei fatti, sono in pochissimi ad aver accettato la nuova sfida. Ad aver costruito la campagna elettorale su cinque anni di semina che, secondo il presidente della Regione uscente, hanno consegnato alla Sicilia una Regione “con le carte in regola” e “senza condizionamenti esterni”. Taluni parlano del miglior governo degli ultimi trent’anni. Se così fosse, perché tanta riluttanza a uscire dalla bolla di Musumeci – già imbarcato per Palazzo Madama – e misurarsi col giudizio degli elettori?