Renato Schifani non sta attraversando una stagione favorevole. Man mano che passa il tempo e si avvicinano le prossime elezioni i nodi vengono al pettine e l’ordinaria amministrazione non basta più. Si è visto con i cantieri della Palermo-Catania. Sembrava tutto tranquillo. Poi c’è stato il Colossale Ingorgo e la rabbia della gente ha spezzato in un colpo solo il noioso tran tran del governo regionale, con tutta la sua atavica irrilevanza e il suo cronico immobilismo. Diciamolo: il governatore della Sicilia è accerchiato. A parte le imprecazioni degli automobilisti costretti in autostrada a code di venti chilometri, c’è il malessere dei Coltivatori diretti che non vedono soluzione alla siccità che avanza; ci sono i costruttori edili che denunciano l’inarrestabile trasferimento al nord di risorse destinate alle opere pubbliche del sud. E c’è soprattutto un impietoso sondaggio di Swg che relega Schifani all’ultimo posto tra i presidenti di Regione. Segno che a poco serve inseguire – costantemente, tenacemente – la logica delle clientele; e che la ossessiva distribuzione a destra e manca di contributi a fondo perduto non riuscirà mai a mantenere in piedi una economia già sfilacciata, sfiduciata, disperata.

Tuttavia a che serve maramaldeggiare? Servirebbe, piuttosto, una svolta: seria, immediata, di lungo orizzonte. Ma chi potrà mai intestarsi un’impresa così ardua, così difficile, così titanica? Schifani ha il suo carattere: umorale, scostante, a tratti persino ruvido e contraddittorio. “Si è quel che si è”, annotava Leonardo Sciascia. Ma alla resa dei conti – al di là dei suoi errori, delle sue strigliate e di certe sue parole spesso inopportune – è il presidente che dobbiamo tenerci, che ci piaccia o no, fino al settembre del 2027. Ed è pure uno tra i pochi uomini di potere che, proprio in virtù del suo spiccato narcisismo, sa sempre quello che vuole. Non solo. Se assume un impegno lo mantiene, anche contro i suoi apparati: si è visto con la legge che tiene in piedi i laboratori di analisi, altrimenti destinati alla chiusura, e si è visto pure con il decreto sull’editoria, decreto che lui ha firmato nonostante l’opposizione leguleia del suo assessore al Bilancio, il tecnico Alessandro Dagnino.

Però siamo ancora ai dettagli, alle piccole cose, all’ordinaria amministrazione, a quella minutaglia, insomma, che non lascia tracce nella storia e forse nemmeno nella cronaca. Ora, dopo avere scavalcato metà della legislatura, sarebbe ovviamente auspicabile che il presidente Schifani e la sua compagine di governo pensassero finalmente in grande e impostassero un programma – come si dice? – di ampio respiro; magari con due o tre riforme in grado di cambiare il volto e il futuro di questa sfortunata Sicilia. Ma per approntare un lavoro così impegnativo e guardare a un traguardo così ambizioso sarebbe necessaria la collaborazione fattiva e appassionata di una intera classe politica. Che, obiettivamente, non c’è: non esiste e non si può inventare. Quanto è successo in questi ultimi mesi tra le mura e la magnificenza di Palazzo dei Normanni la dice lunga sul livello raggiunto dal Parlamento siciliano e dalle nostre istituzioni democratiche. Siamo ben oltre la miseria dell’inciucio. Siamo ben oltre il punto di non ritorno. Dobbiamo disperarci? No. La speranza è l’ultima a morire. Anche la speranza di raddrizzare il legno storto di chi ha avuto, malgré tout, il mandato di amministrare il nostro destino. Nessuno è irredimibile: nemmeno la maggioranza che finge di marciare compatta e non si accorge di marciare quasi sempre contro se stessa; e nemmeno l’opposizione che fa finta di esserci e invece, purtroppo, non c’è.