A Genova si sono affidati al carisma e all’acume di Silvia Salis, a Ravenna hanno sposato le idee chiare di Alessandro Barattoni, ad Assisi (in Umbria) hanno confermato la vittoria delle scorse Regionali. A Taranto si giocano la partita al ballottaggio. Le imprese del “campo largo”, in giro per l’Italia, farebbero impallidire chiunque. Specie in Sicilia. Dove l’opposizione è a brandelli, il Partito Democratico fatica a celebrare il congresso e il M5s è in caduta libera. Altrove battono (o surclassano) la Meloni, che comincia ad avvertire il fiato corto del governo; nell’Isola devi dire grazie se riusciranno a presentarsi uniti alle prossime Regionali. A separarli dal continente c’è un oceano (altro che Ponte sullo Stretto).
I successi del centrosinistra alle Amministrative di domenica, restituiscono il senso di una sfida che sembrava perduta per sempre: quella col centrodestra. Ma soprattutto amplifica la sensazione di sconforto, se rapportata ai difficili ingranaggi che la stessa parte politica sta affrontando a Palermo. Alle ultime elezioni provinciali Pd, Movimento 5 Stelle e Avs hanno sperimentato la via più impervia, coalizzandosi (non sempre e non ovunque). Ne sono usciti discretamente, con le vittorie di Enna e Trapani. Ma attenzione: non votavano i cittadini (come a Genova) bensì sindaci e consiglieri comunali, che non rispondevano al sentiment generale, bensì agli ordini di scuderia. E che nei due casi citati sono riusciti a farsi largo grazie, soprattutto, alle mille crepe dell’altro schieramento.
Alle prossime Regionali, ovviamente, sarà diverso. E il centrosinistra non sembra possedere la statura, né la struttura, per potersi confrontare ad armi pari. Non c’è una Salis, capace di convogliare le forze progressiste in uno schieramento che parla la stessa lingua; non c’è neppure un Barattoni, abile segretario del Pd ravennate, la cui autorevolezza era conclamata. Al Partito Democratico siciliano manca da tempo un vero segretario, inteso come uno che, oltre ad unire, sia anche in grado di rappresentare gli altri. Anthony Barbagallo, che in questi giorni cercherà di confermarsi alla guida, corre da solo ma ha già perso il sostegno del gruppo parlamentare dell’Ars (che si è ammutinato dietro il mancato, e presunto, rispetto delle regole d’ingaggio). I deputati non hanno presentato un’alternativa, preferendo il non-voto.
Il Pd rimane ostaggio dell’indifferenza romana (denunciata da Antonello Cracolici al momento di presentare la propria candidatura alla segreteria, poi ritrattata) e di ricorsi formali e scontri politici interni. L’ultima decisione della Commissione nazionale di garanzia, ha stabilito che la competenza sui ricorsi spetta alla Commissione regionale di garanzia, sconfessando i probiviri siciliani che si erano dichiarati “incompetenti” sulla questione sollevata dai ribelli. Al centro della contesa c’è la legittimità del congresso in corso. I ricorrenti – tra cui il deputato e sindaco di Militello, Giovanni Burtone e l’area vicina a Matteo Orfini – contestano l’assenza del parere obbligatorio sul regolamento congressuale approvato a gennaio, ritenendolo un vizio che invalida l’intero processo. Anche sul numero di votanti ci sono differenti interpretazioni.
Il risultato è un estenuante rimpallo di competenze tra Palermo e Roma, con in mezzo il commissario Nico Stumpo, nominato da Elly Schlein per vigilare sull’iter congressuale ma privo, per sua stessa ammissione, di poteri sulla legittimità del regolamento. La vicenda riflette in modo emblematico la profonda crisi identitaria e organizzativa del Pd siciliano, segnato da lotte intestine e incapacità di trovare una sintesi politica e procedurale. Si uniscono solo per partecipare alla spartizione delle mance all’Ars, per il resto è un campo di battaglia aperto h24.
Coi 5 Stelle, almeno a Palazzo dei Normanni, sembrano aver ritrovato coesione. Si parla tanto de “L’alternativa”, una proposta elettorale e tematica per tenerli insieme. Ma la data è ancora distante per vederci chiaro. Nel 2022 avevano celebrato le primarie, con la vittoria di Caterina Chinnici, e avevano comunque deciso di spaccarsi alla vigilia del voto: ognuno per sé. I Cinque Stelle sono i più prolifici oppositori, almeno a parole (già le iniziative latitano: ad eccezione della richiesta frequente di un dibattito sulla sanità e sul turismo), ma stanno affrontando – da anni – un crollo non indifferente a livello di consenso. E non solo alle Amministrative. Il dopo Cancelleri, che coincide con l’esplosione del fenomeno Conte, ha riservato poche gioie e rari sussulti.
Il resto della coalizione è flaccido, fatica a emergere da un lungo anonimato, anche se l’alleanza di Verdi e Sinistra è riuscita a strappare un seggio all’Europarlamento per Leoluca Orlando. Cui sono bastate 18 mila preferenze per volare a Strasburgo. Più in generale, manca il senso stesso dell’opposizione, spesso travolto da accordi (alla luce del sole) con i partiti di governo per la spartizione delle prebende, e totalmente ignara della questione morale che andrebbe riaffermata nei palazzi del potere.
Elly Schlein, che in Sicilia è tornata solo per qualche ricorrenza, e che per il regolamento dei conti interni al Pd si è affidata ai suoi emissari, si gode i numeri (“A Genova stiamo intorno al 30%, otto punti più delle scorse comunali, mentre FdI è al 12”) e insiste sulla strategia “testardamente unitaria”, perché “solo così si può battere la destra. Noi lo siamo sempre stati e continueremo a farlo. È quello il punto dirimente Ne siamo talmente convinti che proseguiremo in questa direzione, cercando di porre al centro le tante cose che ci uniscono, facendo sintesi dei diversi punti di vista, che pure ci sono. Dove governiamo insieme sta già funzionando”. Dove non hanno più governato, come in Sicilia, rischiano di non farlo per i prossimi quindici anni. Il partito in mano alle correnti e ai cacicchi impedisce di sviluppare un’identità e di condividere un percorso. Anche con i potenziali alleati.